Chissà come l’avrà presa il vecchio Steve Earle: un figlio che intitola un disco “Absent Fathers” non è esattamente una di quelle cose che riempiono di orgoglio un genitore… “Deve averla vista come una scelta artistica, altrimenti è probabile che sarebbe incavolato nero”, si schermisce con un sorriso Justin Townes Earle.
A pochi mesi di distanza dal precedente “Single Mothers”, “Absent Fathers” porta a compimento un dittico pensato inizialmente come un doppio album, in cui i riferimenti autobiografici non possono non saltare subito all’occhio. La suddivisione in due capitoli separati è più che altro un espediente pratico: “Di questi tempi”, confessa, “è dura convincere qualcuno a sedersi per un’ora ad ascoltare un disco”. Ma è un’ispirazione unitaria a fare da denominatore comune ai due album gemelli, conducendo Earle jr. a legare tra di loro alcune delle pagine più personali del proprio canzoniere.
Stesse session, stessi compagni, stesso approccio: il basso di Mark Hedman, la batteria di Matt Pence e la pedal steel di Paul Niehaus accompagnano anche stavolta Earle in una declinazione ridotta all’osso del suo cantautorato dai risvolti vintage. I toni sembrano farsi anzi ancora più raccolti, allo stesso modo in cui i colori della copertina di “Single Mothers” sfumano nelle ombre di quella del nuovo album, con il songwriter americano e la moglie al posto delle controfigure adolescenti da cui si erano fatti impersonare la volta scorsa.
Da un lato il country rarefatto di “Day And Night” e “Slow Monday”, dall’altro le vibrazioni r’n’b di “Call Ya Momma” e “Someone Will Pay”: per Earle non c’è nessuna vera differenza. “Vengono tutti e due dalla chiesa. L’unica cosa che li separa sono i binari della ferrovia, quelli che dividevano le case dei bianchi da quelle dei neri”. L’anima di Hank Williams e quella Sam Cooke, connesse nel più intimo della loro essenza: in fondo è questo l’orizzonte a cui aspira da sempre la sua musica.
Se “Single Mothers” metteva al centro il coraggio di andare avanti, in “Absent Fathers” è il bisogno di riconciliarsi con quello che ci si è lasciati alle spalle a prendere il sopravvento. Conoscere il proprio padre, fare i conti con quello da cui si viene: ““Wish I could say that I know you”, sospira Earle nell’apertura di “Farther From Me”, “’Cause Lord I wanna understand / Need you to know there’s nothing I want more in this world as a man”.
Non si tratta tanto di puntare il dito con il risentimento di un figlio deluso. È piuttosto la scoperta di essere fatti della stessa fragilità di chi non ha saputo sostenere le tue speranze. Una dolorosa immedesimazione nell’amore che si raffredda (“Why”), nella routine che diventa una prigione (“Slow Monday”), nella fiducia che si trasforma in sospetto (“When The One You Love Loses Faith”).
Earle resta solo con gli arpeggi della propria chitarra acustica, a chiedersi sulle note di “Looking For A Place To Land” dove l’abbiano portato i fantasmi di famiglia. Come un aereo decollato troppo presto, si guarda intorno in cerca di un luogo dove poter atterrare prima che il carburante si esaurisca. Fino a quando, all’improvviso, una voce spezza il silenzio: “Seeker come back/ Lonely seeker come in”. Dopo tanto vagare, la risposta è semplice come un tu, qualcuno tra le cui braccia poter trovare finalmente casa. “I touched down and couldn’t find my feet/ But you held me up till I could stand/ Now I never fly alone, I've got a place to land”.
29/01/2015