Last Good Tooth

L’“ultimo dente buono” sono quattro ragazzi di Providence, un nome che non ha fatto breccia quest’anno, perché fanno musica che, tutto sommato, brutalmente, non interessa. Il songwriting dimesso, le interpretazioni senza pretese di Penn Sultan sono un biglietto di visita di quelli che ti metti in tasca senza guardarlo, per buttarlo nel primo cestino insieme ai volantini. Gli arrangiamenti, pur profondi e spaziosi, di chitarra, pianoforte, batteria, tromba, fiddle etc. sono un’intelaiatura a volte frammentaria, insondabile (“A Race”), a volte quasi troppo “media” per convincere l’anima alternativa (il groove country-soul di “This Light”, il southern-rock da sports-bar ma di classe di “Our Little Machine”).

Il sound cameristico, che però vuole essere pop ma non si sente abbastanza giovane, o incosciente, per lanciarsi, può far pensare a un disco del Wilkommen Collective prodotto negli Stati Uniti e non a Brighton (“Vices”, l’ottimo biglietto da visita “Shell”). Molti hanno parlato di possibile erede Kurt Wagner, un nome che Sultan può richiamare anche solo per via del timbro e della resa vocale, ma con una vitalità melodica e una soavità nel songwriting (“Which Ones To Roll”) che sembra avere, appunto, radici britanniche (“Best Way To Health”).
L’intelligenza degli arrangiamenti è sopraffina, come nella grandezza dissimulata e cangiante di “2011 Operation”, che nei suoi scherzi di melodica non fa mai presagire il tema rilassatamente epico del ritornello, da grande rimpatriata americana.

Un difetto è la lunghezza spropositata dei brani, davvero insolita per il genere, una nota positiva è la presenza come voce femminile di Morgan Eve Swain dai Brown Bird. Finalmente, però, un nome originale nel panorama dell’Americana contemporaneo.

27/12/2015