Proprio questo passaggio è documentato nel breve album, che è sostanzialmente un apripista, ancora acerbo ma già validissimo, della ricerca che avrebbe caratterizzato l'ultimo lavoro. Lavatosi via in maniera decisiva (e un po' frettolosa) il passato techno, Van Dijk inaugura la stagione del sound design parnassiano e di quell'interesse per la rielaborazione del field recording riproposto con maggiore consapevolezza proprio in “Aquatic System”.
Mancano qui i passaggi più colorati, necessari all'equilibrio dell'ecosistema sonoro, e l'impeccabile rigore formale si trasforma in alcuni momenti in autentica monocromia. E manca, soprattutto, un protagonista concreto del paesaggio (quello che l'acqua avrebbe rappresentato nel lavoro successivo), che è qui narrato in coordinate sensoriali generiche e astratte, ma senza l'estro e la varietà necessari a lasciare spazio alla fantasia illustrativa dell'ascoltatore.
Trattasi comunque di materiale di altissima qualità, con alcune gemme di scultura sonora (la memoria concréte di “Valo”, l'immersione subatomica di “Hypnotism”) e con un finale magistrale interamente consacrato al drone cosmico grazie alle due metà di “Surfaces”. Un lavoro già in grado di mostrare le potenzialità del suo autore, ancora alle prese con il (necessario) perfezionamento di una formula destinata a rivelarsi ben più che efficace.
(31/08/2015)