Pinkshinyultrablast di San Pietroburgo debuttano nel 2009 con l’Ep “Happy Songs For Happy Zombies”, ottenendo un successo nel cosmo alternativo che li porta a varcare le soglie della madrepatria. L’alta attesa per il debutto lungo “Everything Else Matters” non delude.
“Wish We Were” è la prima mini-suite dell’album. Attacca con un caleidoscopio d’immane coro femminile a cappella in stile Julianna Barwick, segue una parodia elettronica solo strumentale della chill-out, in realtà una locomotiva di tensione celestiale Terry Riley-iana che fa da rampa di lancio per i droni supersonici della band, tutti presi in un’inarrestabile fantasia. Sette fantasmagorici minuti che deliziano l’ascolto.
Per arrivare alle altre composizioni lunghe si passa per un competente allenamento shoegaze, dal canto melanconico impiantato in un vento di distorsione di “Holy Forest” al duetto tra chitarra serpentina e canto rinascimentale nel boogie ultraterreno di “Glitter”. Il picco viene con “Umi”, classicamente reminiscente del dream-pop storico ma anche nobilitata da una melodia simpatica e una giostra strumentale luminescente: tutto capitola in un gigantesco accordo di chiusa simile a quello suonato da George Martin alla fine di “A Day In The Life” dei Beatles.
L’allungata “Metamorphosis” è una sorta di danza orgiastica che parte da un taglia e cuci di nastri in stile minimalista; la sezione ritmica punk-funk ospita una canto rifratto nell’infinito, e indi staffetta con gli strappi di chitarra, un piccolo tour de force di accordi e distorsione. I 9 minuti di “Marigold” sono più quieti, dapprima pacati al limite della new age e poi scimmiottanti i secondi Cure (meno il canto di Robert Smith), ma rappresentano anche una base organica che il combo alla fine filtra in un gorgo di rumore e sibili vocali in eterno crepitio.
Anziché tentare di raggiungere l’ascesi dei grandi classici del genere, il quintetto russo (tutti giovanissimi) la circuisce e la rielabora con spirito e fantasia, a suon di ritmi danzerecci, fasce di chitarre spaccatimpani e una dotta scrittura progressiva. Vi sono timbri conosciuti e assetti arcinoti, ma la vitalità dell’esecuzione - e una produzione appropriata, non troppo giocata sulle frequenze alte - rende una coinvolgente profondità. Almeno tre numeri da antologia: il singolo e video “Holy Forest” non è tra questi.
15/02/2015