In un 2015 che lo ha visto tornare, dopo anni di relativa riduzione, alla prolificità dei primi Duemila – siamo qui di fronte al settimo album tra solisti e collaborazioni e senza contare remaster e compilation – Steve Roach pubblica quello che è probabilmente e per certi versi il lavoro più atipico degli ultimi anni della sua carriera. Se le meditazioni spettrali di “Invisible” e le proiezioni in superficie di “Future Flows” avevano mostrato un ridursi della componente immersiva del suo suono, divenuta predominante dall'abbandono delle sperimentazioni trancedeliche, “Etheric Imprints” segna senza mezzi termini una rottura autentica col passato recente.
La componente interiorizzante, dai risvolti quasi esistenziali, che già aveva fatto ingresso silenziosamente nelle trame del maestro californiano, prende di colpo il sopravvento. Mai un disco di Steve Roach era parso così rarefatto. Niente più immersioni in un ambiente altro che la musica era chiamata a evocare e costituire al tempo stesso. Stavolta l'ambiente è invece accennato, tratteggiato appena: e quelle circostanze emotive in precedenza lasciate alla libera esperienza soggettiva dell'ascoltato sono qui imposte e protagoniste assolute, nella sostanza di un isolazionismo disarmante.
A modificarsi, in seno a tutto questo, è anche un gergo sonoro per molti divenuto ripetitivo e sterile da anni, ma mai passibile di microvariazioni in grado di regalare prospettive sempre nuove a un'esperienza d'ascolto pressoché inesauribile in tutte le sue possibilità. Niente più sinewave e flussi in dialogo: l'ouverture della title track, destinata a divenire uno dei brani-emblema del presente di Roach, si abbandona al dimesso e rassegnato languore di note di piano sintetico, sfiorando da vicino le contemplazioni nel buio del collega Harold Budd. Tutt'attorno un silenzio inquieto, che nella catarsi di “Indigo Shift” viene avvolto dal ritorno di spettri vocali deformati, contorni di un rituale oscuro al cui centro si colloca un arpeggiatore analogico detonato.
Bisogna aspettare “Holding Light” per ritrovare qualche traccia del suono (e delle atmosfere) più classiche di Roach: fra flussi, armoniche, comete e asteroidi si torna a parlare un linguaggio più familiare. Diciassette minuti che fungono da eccezione a livello sonoro, pur celebrando la venuta della luce che in “The Way Forward” assume connotati più concreti ed empirici, tra amalgami di loop e la melodia finale à-la Michael Danna, affidata alla voce solitaria di una tastiera. Una chiusura che corona alla perfezione un percorso di auto-analisi che stavolta prescinde da ogni carattere meditativo, preferendo a esso una forma di realismo emotivo.
Una scelta che non ha mancato da subito di spiazzare i fan più legati al verbo classico di Roach, sconfinato e sconfinante per definizione e costituzione, in grado per questo di regalare un maggior numero di possibilità di fruizione. Ad essere accontentati saranno forse per una volta coloro che da anni sostengono la tesi di un empasse autocontemplativo insormontabile in cui il maestro dell'ambient music sarebbe “imprigionato” da tempo. E Roach, dal canto suo, con quest'ennesima (e stavolta molto più tangibile) modificazione prospettica, conferma di avere ancora molto da insegnare a chi sappia (o meglio, a chi voglia) concedersi all'arte dell'ascolto.
15/12/2015