Barberos

Barberos

2016 (OFFSET Records, Dream Machine)
indietronica, math

La band di Liverpool, per il nuovo lavoro omonimo, prende in prestito i suoni vintage dell’elettronica Kraftwerk-iana, rielaborando il tutto attraverso una line-up fatta di due batteristi, sintetizzatore ed effetti vocali, in una miscela sperimentale che non disdegna di lambire territori noise, progressive e psichedelici.
Sono del resto questi i punti di forza della formazione britannica; tempi dispari alternati a reiterazioni tribali, cambi di ritmo ed esasperazioni sonore. Eppure si tratta di punti di forza fin troppo deboli, perché sono proprio i suoni utilizzati e il loro modo di utilizzo a riportare l’opera in una dimensione anche sotto la mediocrità. La lezione dei Kraftwerk è stata assimilata da chiunque si sia cimentato in questo genere, ma non per questo una sua eventuale reinterpretazione è necessariamente all’altezza e sul lato sperimentale molto più interessante finisce per essere il progetto quasi parallelo (diciamo così) a.P.A.t.T., uscito quest’anno con l’interessante “Fun Whit Music”.

“The Return Of The Ladius” inizia in un tripudio sonoro cosmico in cui sono immediatamente palesate le influenze già indicate e se ne possono intuire tante altre tutte riconducibili ai Sessanta dei Silver Apples, ai Settanta degli Yellow Magic Orchestra, al kraut-rock più “sintetico” come quello di Manuel Göttsching o alla psichedelia dei suoi Ash Ra Tempel. Il tutto condito, come abbiamo detto, da dinamiche prog che, ovviamente, si sposano con le scelte stilistiche già citate in precedenza. Nonostante questa varietà, i suoni non convincono, così come le armonie, le melodie, l’arrangiamento. Tutto è troppo confuso e approssimativo e gli oltre sette minuti che si legano al brano successivo finiscono per annoiare notevolmente. Proprio la seconda traccia, “The Ladius”, sembra prendere più vivacità e forza, scegliendo come preponderante la strada math, qui intrapresa tuttavia senza troppo coraggio e sempre condita da suoni ridondanti e vocalizzi sgradevoli, ma non nel senso più intrigante del termine.

Con “Timur” si sfiorano territori quasi psych-pop e art-rock, a guisa di certi Battles e Liars più "circensi" e musicalmente sarcastici, ma è solo con la successiva “Hoyl”, lenta, inquieta, inquietante e minimale litania apocalittica che quasi ricorda la creatura di David Tibet, che i Barberos mostrano di avere idee capaci di superare la mediocrità espressiva fino ad ora mostrata. Con “Concerto” si torna nella norma, riprendendo il discorso beffardo intrapreso con “Timur” prima della doppietta conclusiva, “Akropolis”, “Obladden”. Il primo brano è un fastidioso e minimale math senza reale energia, spossato, in cui ogni velleità avanguardistica è frenata da una sorta d’indecisione compositiva e mancanza di coraggio. Il secondo, che chiude il disco, è invece un’evoluzione delle atmosfere claustrofobiche di “Hoyl”, e non a caso, l’unico brano in cui la violenta cacofonia noise prende davvero parola, regalando alla musica della formazione d’oltremanica quella potenza mai mostrata prima, pur se con qualche titubanza quasi a non voler “dare troppo fastidio”.

La materia prima forgiata dai Barberos non è certo di facile preparazione e consumo; il rischio di apparire nostalgici e anacronistici è forte, nonostante negli ultimi anni vi sia una notevole rivalutazione in chiave moderna di certe ritmiche distorte e disallineate. Eppure il problema di questo disco omonimo non è certo nella scelta stilistica, sebbene, come visto, le influenze siano tutt’altro che celate. Il sound dei Barberos non suona affatto vecchio ma semplicemente banale, raffazzonato, poco determinato, incapace di andare davvero oltre. Qualcosa di troppo scialbo per essere avanguardia, troppo complesso per essere popolare, troppo sterile per colpire gli appassionati del genere.

11/11/2016

Tracklist

  1. The Return Of The Ladius    
  2. The Ladius
  3. Timur
  4. Hoyl
  5. Concerto
  6. Akropolis
  7. Obladen


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