Ma il tempo passato si nota, in questo quarto lavoro in studio, con uno stile decisamente più asciutto, che si esprime in brani “puliti”, ben più lineari che in passato, ad acuire un’espressività “post” e più direttamente emozionale, in un afflato scenografico che può ricordare il Matt Elliott di quest’anno.
Questa calligrafia dell’isolamento e della malinconia (“Red Road”) si ritrova così acuita nelle divagazioni “ambientali” del disco (lo sfarfallio epifanico de “The Solid World”, il fingerpicking elegiaco di “Atmosphere”), senza mai suonare superficiale, va detto, ma neanche davvero ficcante; priva, per dire, dello spirito fortemente “umano” di un “Gray Lodge Wisdom”.
Si tratta comunque del disco di appeal più generale di Dickson, che potrebbe fare proseliti anche al di fuori della nicchia strettamente cantautorale.
(15/12/2016)