Le Honeyblood non fanno mistero delle loro influenze: Nirvana, Jesus & Mary Chain, Pixies e Throwing Muses campeggiano ancora nelle foto riposte sul comodino, e ancora una volta le pur evidenti citazioni stilistiche restano pregevolmente incapsulate in canzoncine tanto innocue quanto efficaci.
“Babes Never Die” non è quella dichiarazione d’indipendenza e autonomia che era lecito attendere, per poter smarcare le loro gesta da centinaia di band simili.
Il pop-grunge in chiave lo-fi si è solo raffinato rispetto all’esordio di due anni fa, senza perdere smalto e grinta, ma senza aggiungere molto al percorso artistico delle Honeyblood. Le canzoni restano ancorate a un unico riff e a un muro del suono guitar-noise, mentre le voci restano l’unica forza motrice di un album a tratti prevedibile ma mai noioso.
“Love Is A Disease” è senza alcun dubbio la miglior canzone scritta dalle due ragazze di Glasgow, grazie a un travolgente intreccio vocale e armonico. “Sister Wolf” cattura l’essenza del rock’n’roll e delle sue rigenerazioni punk e grunge con un riff avvincente, mentre la parentesi meditativa di “Walking At Midnight” promette possibili evoluzioni creative.
A parte le succitate tracce, quello che permane è un senso di frustrazione costante per un potenziale inespresso e svenduto all’effetto nostalgia, caratteristica che garantirà ancora una volta un buon riscontro da parte di pubblico e critica, ma mentire sulla reale consistenza di “Babes Never Die” non sarebbe giusto.
Il ritorno delle Honeyblood è infatti anche la festa delle occasioni mancate: basti solo per esempio il refrain incendiario di “Justine, Misery Queen”, purtroppo trasformato in un compitino pop dai mille potenziali rimandi. In futuro sarà necessario per le due ragazze decidere se restare eterne promesse o voler uscire finalmente da quel guscio protettivo che ha obnubilato il loro talento.
(02/12/2016)