Negli anni 70 ogni perplessità o dubbio veniva fugato da una frase: "L'ha detto la televisione", espressione surrogata nella più moderna: "L'ho letto su internet".
Con queste premesse, risulta difficile convincere il lettore che esiste un cantautore di nome John Cunningham, infatti digitando il nome su Google appare un lungo elenco di giocatori di football, rugby e baseball, perfino vescovi, agenti della Raf, giornalisti, scrittori, attori, architetti, prima di scorgere un John Cunningham musicista (un folksinger scozzese, famoso per il suo apporto ai Silly Wizard).
Per rintracciare qualche sparuta notizia, a questo punto, bisogna digitare insieme al nome la parola Discogs, ed ecco comparire finalmente la sua discografia.
Per quei pochi (spero di non essere l’unico) che hanno avuto la fortuna d’incrociare album come “Happy Go Unlucky” o “Homeless House”, la musica di John Cunningham non è più un mistero. Beatles e Nick Drake sono solo due degli artisti citati con eleganza e un’ottima scrittura.
Come il conterraneo Bill Pritchard, anche Cunningham ha trovato in Francia la sua nuova patria artistica, soprattutto dopo alcune amare vicende personali che lo hanno costretto a uno stop forzato.
Quattordici anni dopo l’artista ha messo in piedi un album che, come già successo con Bill Fay, non è un puro esercizio nostalgico.
“Fell” è il sesto album di Cunningham, il suo più riuscito e completo, un progetto dalle mille anime, sorretto da un nugolo di canzoni eccellenti. Folk e pop si sposano dando origine a un variegato campionario di canoni sonori incorniciati con grazia artigianale.
Le fragranze pop e folk si contaminano con partiture orchestrali dai toni malinconici, con inaspettate citazioni neo-classicheggianti (la pinkfloydiana “We Get So We Don't Know”), fluidi barocchi dai contorni quasi prog-sinfonici (“I Can Fly”) e ballate pianistiche dal fascino evergreen (“Flowers Will Grow On This Stony Ground”).
E’ altresì comprensibile l’interesse di Joe Pernice per il musicista inglese (nel 2010 ha ristampato in formato economico i due ultimi album). Canzoni come “Let Go Of Those Dreams” e “Often A Ghost” e “Frozen In Time” sono due perfette miniature pop, il sogno di qualsiasi fan dei Beatles.
Armonicamente complesse eppur semplici e deliziose (“While They Talk Of Life”), le dieci tracce si incastrano in un mosaico lirico che funziona sia nell’insieme che nei suoi frammenti, una lezione di stile da un musicista che merita una posizione più autorevole e una più rilevante notorietà di quella in parte negata ai navigatori della Rete.
03/12/2016