Se le prime utilizzano suoni più moderni e melodie catchy che possono suscitare l’interesse dell’indie-kid meno scafato, i Parrots affondano le radici nel garage dei Sixties riproposto sotto l’ottica flower-punk dei Black Lips, in virtù dell’utilizzo di melodie bizzarre seppellite da sporcizia lo-fi, suggestioni psych, chitarre distorte, cori alcolici e attitudine weird. Non tragga in inganno l’apparentemente innocuo pop’n’roll dell’opener “Too High To Die”, peraltro devastato dopo appena un minuto da un distorsore feroce, a farla da padrona sono brani fuori di testa come “Let’s Do It Again” e “Casper”, grotteschi ma irresistibili motivi surf che non avrebbero sfigurato in un disco come “200 Million Thousand”, ma soprattutto “No me gustas te quiero” , pura psichedelia sghemba e ciondolante, ideale colonna sonora di una siesta divenuta onirica in seguito ad abuso di cannabinoidi.
A fare da contraltare a questi pezzi improbabili e allegrotti, o più semplicemente stonati, c’è la parte più dura del disco rappresentata dal rhythm’n’blues sulfureo di “E. A. Presley” e da quello lordato di marciume punk di “Windows 98” (probabilmente caso unico di un brano dedicato a un obsoleto sistema operativo…). I riferimenti a sonorità e ad artisti del passato abbondano (vedi la a suo modo dylaniana “The Road That Brings You Home”) e l’unico episodio appena sperimentale rimane “Jane Gumb” in cui elementi del surf classico (basso rimbombante e twang chitarristico) vengono inseriti in un contesto post-punk caratterizzato dalla ritmica ossessiva e dall’atmosfera malata, acuita da una voce borderline, in un connubio tra stilemi anni 60 e quelli new wave collaudato in passato da un gruppo come i Crystal Stilts. Ma si tratta di un pezzo forse fuori posto, se accostato alla maggior parte dei brani, caratterizzati da una costante aria di festa, di un disco adatto ad allietare party di freak strafatti, tanto da terminare con una title track che chiude in modo coerente il cerchio in qualità di perfetta ballata da post-hangover.
Come capita ormai in generale nella musica pop e rock odierna, e in particolare in prodotti di questo tipo, a latitare è l’originalità, che ovviamente è da cercare altrove, ma in fondo cosa aspettarsi da un gruppo di debosciati che si fanno chiamare con sagace autoironia The Parrots (i pappagalli) se non la ripetizione di un discorso già fatto e sentito tramite un gracchiare bislacco che ce li rende quantomeno simpatici? Nel caso di questo “Los Niños Sin Miedo”, un promettente esordio che ambisce al titolo di album garage più divertente dell’anno.
(27/11/2016)