I tempi di "Interstellar" e del revival dream-pop sono finiti da un bel pezzo, ma a Frankie Rose la cosa non potrebbe interessare di meno. Sulla scia di quel sound luminoso e futuribile che aveva decretato molto del successo del suo primo album solista, a quattro anni dal non particolarmente riuscito "Herein Wild", la batterista più famosa della scena garage statunitense riparte con "Cage Tropical", il suo terzo full-length, là dove si era fermata, come se il tempo trascorso non avesse invece portato significative novità nella vita artistica della musicista di Brooklyn. Dell'esperienza indie-pop con i Beverly, poi abbandonati per perseguire i suoi sogni solisti, vi è ben poca traccia: nei dieci brani dell'ultima fatica il punto di partenza è nuovamente quel pop da sogno lucido, costellato di fitte trame di synth e strutture ritmiche serrate, su cui l'autrice innesta stavolta qualche notevole variazione su un tema che rischiava di diventare troppo abusato. Se è vero che la dimensione melodica non raggiunge la pienezza di idee dell'esordio, le influenze pop-wave conferite alla scrittura, unite a un dinamismo ancora più slanciato della componente ritmica, consentono a Rose di tornare nuovamente in carreggiata, e trovare nuova linfa per uno stile che rischiava di rimanere cristallizzato alla prima bella prova. Si può sempre trovare il tempo per pareggiarne gli esiti e perché no, superarli: togliersi d'impaccio dalla stasi era comunque la priorità assoluta, ora come ora.
In effetti, l'affinamento nella scrittura rispetto alla trasandatezza del lavoro predecente è evidente: anche quando la voglia di fuoriuscire dal selciato del pressante disco d'esordio non porta a esiti convincenti, il desiderio di diversificazione dei moduli e delle possibilità si traduce in una palette più sfumata e ricca di nuance, in cui Rose si esprime con maggiore libertà e una sottigliezza espressiva più diffusa. Per quanto poi i titoli possano rivelarsi fuorvianti delle volte, "Cage Tropical" non appare così fuori luogo nel gettare un po' di luce sul contenuto del disco. No, nessun abuso di noiosi stilemi tropical-house, fortunatamente, ma una certa quale rilassatezza dai sentori esotici riesce a fare capolino tra i synth e le ritmiche serrate ormai diventati un trademark espressivo della musicista, che quindi modella i brani sulla base di un mood più espanso, ma in parte anche meno onirico rispetto al passato pure recente.
"Dancing Down The Hall", con i suoi contributi strumentali più sparsi e una batteria dal tocco wave che scandisce il proprio ritmo con indolenza, si fa tramite di questo nuovo cambio d'ottica, costruendo una melodia ondivaga e apparentemente sfilacciata, la quale però trova sostegno dal suo andamento ricorsivo, che lascia notevole spazio alla fluttuante ambientazione sonora guadagnandone al contempo in consistenza. "Art Bell" a suo modo fa da preludio all'atmosfera del brano precedente, condensando in due minuti di pura estasi pop-wave (ritornello ineccepibile in tal senso) la distensione sensoriale ricercata dalla musicista, attraverso un andamento senz'altro più consistente, ma mai davvero calcato.
Anche a puntare su un dinamismo più marcato (i pattern batteristici in zona kraut dell'accoppiata "Dyson Sphere"-"Trouble") la penna non segue con grossa docilità tanta energia, trovandosi invece più a suo agio in quel crinale che separa la realtà dal sogno, e che quindi predilige interpretazioni più posate, lontane da troppa frenesia. Le tastiere, cristalline e dal melodismo affinato, diventano quindi un supporto d'elezione per il canto di Rose. Splendide nel contrassegnare le rapide evoluzioni, sottilmente black, della title track (in cui le drum machine giocano con i tagli ossessivi dei primi The The), unico elemento descrittivo nell'ambientazione surreale di "Epic Slack" (intermezzo dal titolo che è tutto un programma), elegante contrappunto al fitto lavorio jangle della chitarra nel buon singolo "Red Museum", costituiscono un appoggio incredibile alla sfumata vocalità della musicista, spostando di volta in volta il baricentro verso diversi aspetti, stilistici quanto espressivi, di una proposta che ha ritrovato nuovo slancio e ha cominciato (si perdoni il gioco di parole) ancora una volta a sognare.
Non serve, insomma, avviarsi a rivoluzioni totali per potersi riconfigurare e ripensare con successo la propria rotta artistica. Anche se non sempre la scrittura sa farsi carico dei nuovi accorgimenti stilistici ("Love In Rockets", sottile rimando alla band creata da ex-membri dei Bauhaus, inciampa in parte suoi stessi passi, non riuscendo a declinare con convinzione le cadenze pop dell'arrangiamento), nondimeno è difficile non rilevare la fuoriuscita da quella prevedibilità che aveva fiaccato in maniera così netta la seconda prova. Vale la pena essere fiduciosi per il prosieguo di carriera di Frankie Rose: le sorprese non sono ancora terminate.
06/10/2017