Nativa del Wisconsin e ora stabile in quel di Dubuque (Iowa), la cantautrice e multistrumenista Jen Gloeckner si afferma con l’anomala consuetudine di produrre dischi con molte tracce a sei anni di distanza uno dall’altro. Il debutto “Miles Away” (2003) è un’opera fieramente confessionale, acustica nella vena della prima Ani Di Franco, con almeno due numeri ragguardevoli, la hit “Hazy Sky” (con fiddle in stile Penguin Cafe e Clogs), e “Mountains”, ma anche le ballate per piano da chanteuse fatalista di “Glimpse” e “Otherside”. Un primo flirt con la produzione elettronica, disinvolta seppur ancora timida, si ha con il blues downtempo di “Nothing Personale” e il soul “Only 1”. Il secondo “Mouth Of Mars” (2009) è invece un lavoro da extraterrestre: praticamente tutte le tecniche e tutti gli artifici ornano un ciclo di canzoni in cui riversa l’intero mondo interiore. Ed è il suo apice artistico.
Altri sei anni e arriva il terzo, “Vine”, anche se stavolta i brani sono in numero più convenzionale, o quantomeno meno monumentale. Il procedimento di cura del suono inaugurato dal predecessore in ogni caso non si arresta, anzi quasi tende a travolgere l’ascolto, spingendosi fino a dimenticare la canzone cantata e a creare, in “Firefly”, un vero profluvio di frasi sonore, un puro pamphlet di scenografie (qui colte in un tam-tam tuareg-desertico).
Il carillon r’n’b della title track, una sonata eseguita con fervore chiesastico, si sofistica in “Breathe”, synth-pop alla Moroder ma rallentato in stile Massive Attack (ma quelli del momento glaciale di “100th Window”), e in “Prayers”, locomotiva techno riprodotta a un terzo dell’usuale velocità, da cui sgorga dunque un dream-pop di pregevole fattura.
La maggior porzione d’ispirazione sembra comunque provenire da un’improvvisa accensione di febbre per i passatismi: “Ginger Ale”, marcetta-fanfara blues dolcissima con archi da camera, l’inno di “Blowing Through”, la serenata spaziale alla Enya di “The Last Thought” (la più amena di tutte, con le parole a sperdersi in sospiri solistici e corali), lo smarrimento psichedelico dei Cowboy Junkies in “Counting Sheep”. “Row With The Flow” è forse il numero più debole, quello con il corredo più volatile; sgonfiato della produzione, il canzoniere di Gloeckner non ha molto altro da offrire.
Registrato in camera da letto, anziché in studio come i due predecessori, per rendere maggiormente l’idea di diario confessionale di melodie. Per appassionati del filone che dal dream-pop porta al trip-hop, a “Twin Peaks”, ai Mazzy Star, fino a Lana Del Rey. Riesce a discostarsene a tratti perentoriamente, a suon di spettacolose evoluzioni sonore, di sciolta mestizia tecnologica, che frutta, se non grandi canzoni, almeno attimi sublimi. “The Last Thought” è la preferita dell’autrice: anche la nostra. Sul finale smarrisce il filo e ripiega su due riempitivi, poco più di nude ballatine folk, “Colors” e “Fold”. Comparse di due chitarristi prestigiosi: John Ashton, Psychedelic Furs, e Henry Padovani, predecessore di Andy Summers nei Police.
02/08/2017