Era rimasto sepolto tra gli ascolti estivi l’esordio di Trevor Sensor (seguito di due Ep pubblicati nel 2016), ultima creatura affidata alle cure produttive di
Jonathan Rado e
Richard Swift. Scoperto dal chitarrista dei
Killers, Dave Keuning, in un anonimo bar di un paesino dello stato dell’Iowa, il giovane musicista non ha dalla sua una bella presenza, e il timbro vocale aspro e nasale non è un buon biglietto da visita, ma già dalle prime note di “High Beams” appare ben chiaro che le qualità sono racchiuse nella scrittura.
Il
mood è tipicamente
vintage (nella band figurano membri dei
Whitney), con sonorità anni 60 e 70 funzionali a un repertorio indie-folk esuberante, caratterizzato dalla voce emula del giovane
Bob Dylan e di tutti i suoi discepoli, soprattutto di coloro che hanno preferito il brivido rock al tono mesto del cantautorato. “Andy Warhol’s Dream” è un
concept-album sulla profezia dell’artista americano, i "15 minuti di fama" sono l’argomento principale, ed è quindi naturale che ognuna delle undici tracce aspiri a un briciolo di visibilità, gli arrangiamenti non sono però ruffiani o forzosamente piacevoli, quanto piuttosto inebrianti e appassionanti come quelli di un vecchio disco rock’n’roll.
Alla maniera di Nick Lowe, Trevor Sensor mette insieme undici esemplari di "Pure Pop For Now People", tra sinistri
riff di piano alla
Lou Reed (la
title track), citazioni country-western (“The Reaper Man”), intelligenti gospel-folk (“Lion’s Pride”) e ballate più tipicamente
dylaniane (“Starborne Eyes”, “On Your Side”) che preservano una loro peculiarità.
“Andy Warhol’s Dream” resta comunque un progetto simbolico sul valore del successo, quel successo che l’autore dimostra essere alla sua portata, quando scende in campo con lo zuccheroso pop’n’roll al mellotron di “In Hollywood, Everyone Is Plastic” o con la più robusta “Sedwick”. La scelta poi di associare al testo di “The Money Gets Bigger” la melodia più banale e inutile del lotto è un altro segnale della lucidità creativa di Trevor Sensor - dietro l’apparente vacuità e leggerezza di queste undici canzoni si nasconde infatti una visione quasi filosofica sullo scopo finale dell’arte.
Imprimere nella memoria un messaggio o un concetto è, per l’autore, il fine ultimo della musica, a tal scopo il linguaggio deve essere semplice e diretto, ovvero comprensibile, ed è quello che in parte avviene in questa interessante opera prima.