L’inequivocabile vocazione dark (nel senso più ampio possibile) dell’etichetta berlinese Karlrecords la spinge a radunare tutte le forze passate e presenti a sua disposizione. Con il prolifico guru della chitarra drone-doom Aidan Baker si era già prodotta, due anni fa, una collaborazione inedita con Idklang (“In The Red Room”, 2015), mentre la prima pubblicazione del 2018 vede in qualità di comprimario il clarinettista Gareth Davis, impegnato sia in formazioni di stampo post-rock come Shivers, Oiseaux-Tempête e A-Sun Amissa, sia nell’interpretazione delle avanguardie contemporanee di autori quali Alvin Lucier, Bernhard Lang e Anne La Berge.
Nell’inedito incontro di “Invisible Cities”, inciso nel novembre 2016 a Utrecht, il registro è sì grave, ma anche tendenzialmente in understatement: un’esplorazione che ha realmente il sapore di un paesaggio desolato alla fine dei tempi, ove su un basso continuo di effetti elettronici si avverte il lamentoso serpeggiare del clarinetto basso (“Memory”, “Sky”). Un’estetica, a ben vedere, non così distante dalla marca post-jazz di casa ECM, almeno fino al secondo lato dell’Lp: qui comincia ad accumularsi una sottile tensione drammatica nel baluginante tappeto di chitarre, mentre voci distanti echeggiano tra le macerie (“Signs”).
I solitari arabeschi del brano conclusivo – il più lungo dell’album – non lasciano dubbi sul senso ultimo di questo dialogo, che sembra profetizzare un’estrema tregua che giungerà soltanto quando le scellerate vicende umane saranno finalmente disperse e solo la memoria della Terra ne conserverà traccia. Ma quello di “Invisible Cities” non è il suono di una redenzione a lungo attesa, quanto piuttosto di un torvo monito che continua a percorrere indefinitamente le rovine della civiltà, simile al vagare di uno spirito dolente che non trova pace.
05/01/2018