Già membro di varie band (Cajun Dance Party, Yuck, Heb-Hex e Guo) e autore di varie opere sotto altre denominazioni (Hebronix e Oupa), nonché collaboratore di artisti come Tony Crow dei Lambchop, Neil Hagerty, Jad Fair, Norman Blake, Low e Silver Jews, il ventisettenne Daniel Blumberg mette a punto il primo tassello di una carriera solista dalle connotazioni più decise e mature.
Con “Minus” il musicista consolida una lunga e interessante collaborazione con Billy Steiger (violino), Tom Wheatley (basso), Ute Kanngiesser (violoncello), Terry Day (voce) e Jim White dei Dirty Three (batteria), musicisti con i quali ha condiviso una serie di concerti all’Oto Café: un locale diventato famoso per esser luogo di trasversali e geniali jam session.
Prodotto da Peter Walsh (Scott Walker, Peter Gabriel, China Crisis), l’album offre un quadro articolato e complesso della personalità artistica di Blumberg, che al di là delle assonanze stilistiche - da Bonnie Prince Billy a Neil Young - vede il giovane musicista seguire la scia di personaggi dall’aliena e struggente spiritualità, come Mark Linkous (Sparklehorse) e Keaton Henson. Ed è proprio con quest’ultimo che l’artista sembra condividere anche alcuni tratti più intimi della propria personalità, come la comune passione per la pittura e il disegno (alcuni lavori di Blumberg sono stati esposti da Christies), nonché alcuni problemi psicologici, che se per Keaton Henson si traducono nella difficoltà a esibirsi in pubblico, per l'artista sono leggermente più gravi, al punto da averlo costretto a un ricovero durante le registrazioni dell’album.
Realizzato nell’arco di soli cinque giorni in un’isolata campagna gallese, “Minus” è un progetto articolato e complesso, una tela naif dove l’autore mette definitivamente a nudo se stesso, tra accordi di piano, suoni distorti di chitarre e violini, armonie ipnotiche e ripetitive e un cantato con toni da melodramma.
Inquietudine: è questa la parole chiave che permette di entrare nel mondo di Daniel Blumberg, il quale mette su un solo piano Tim Buckley, Neil Young era-Crazy Horse e i Dirty Three, estraendo dal suo canzoniere alcune delle follie sonore più entusiasmanti degli ultimi tempi. A partire dai dodici minuti di quello che può essere considerato il corpo centrale del progetto, “Madder”, è infatti nelle allucinanti e sperimentali sonorità free-form, messe insieme da cigolii di violino, strappi sonori d’armonica e voce, e nei continui accenni di normalità ritmico-melodica che inframmezzano le oscure trame della melodia, che risiede tutta la poetica del giovane musicista.
“Minus” è un album crudo, sincero, a volte perfino straziante nella sua onesta visceralità. Le distorsioni, ricche di rumori e momenti di caos, non sono un trucco atto a mascherare un’esigua capacità compositiva. Un brano come “The Fuse” potrebbe infatti benissimo uscire da un disco di Andy Pratt, Bill Fay e, perché no, anche da uno di Elton John. L’unica differenza è che Blumberg ama mettere in luce anche tutta la rabbia che di solito si cela dietro la malinconia, disturbando l’innato romanticismo delle sue canzoni con sferzate di chitarre elettriche e insolite alterazioni. Anche nelle ballad più accorate e avvolgenti, quando l’autore sembra cedere alla grazia della melodia, ecco spuntare una fragilità figlia del decadentismo noir (la title track), o un malinconico languore che trasforma poche note gentili in una pura esternazione d’amore (“The Bomb”), lasciando l’ascoltatore sempre in tensione, nonostante l’apparente grazia.
Si tratta di un disco che potrebbe essere descritto con fiumi di parole e una serie di innumerevoli argomentazioni, ma in verità si rischierebbe di non riuscire invece a sintetizzarne la pura bellezza, fatta in fondo di cose semplici e quotidiane, raccontate con quel piglio deciso e creativo che di solito separa la definizione di musicista da quella di artista. È altresì comprensibile che nel tentativo di rendere esplicito il potere intrinseco di “Minus”, molti abbiano citato Talk Talk, Sparklehorse o Nick Cave, ma sono convinto che più delle mie o altrui parole, quel che vi convincerà sarà la musica. Che sia quella più blues e struggente di “Stacked”, che con i suoi toni distorti e psichedelici e la voce al limite del falsetto sembra quasi grondare lacrime e sangue, o quella più sregolata della funambolica giostra di ritmi e accordi di violino di “Permanent”, poco importa. Per Blumberg quel che conta è sviscerare la natura delle sue creazioni.
Il complesso e difficoltoso outing emotivo del giovane musicista trova anche il suo legittimo finale, grazie al potere spirituale di “Used To Be Older”, che assume quasi il valore simbolico di una preghiera, un momento catartico che permette all’autore di buttarsi alle spalle il passato, guardando al futuro con più fiducia.
Non è un caso che dopo oltre dieci anni di attività il giovane musicista abbia trovato il coraggio di mettere in prima linea se stesso, esibendo per la prima volta il proprio nome e cognome. “Minus” è a tutti gli effetti un esordio, ma non tanto discografico quanto umano e artistico, un disco da tenere stretto per il consuntivo di fine anno.
09/05/2018