Death By Unga Bunga

So Far So Good So Cool

2018 (Jansen Plateproduksjon)
hard-rock

Giunti al traguardo del decimo anniversario, i norvegesi Death By Unga Bunga scelgono la parentesi autocelebrativa anche per riprendersi dalla sbornia discografica del 2016 (con il quarto album, “Pineapple Pizza”, la ristampa in grande stile dell’esordio, “Juvenile Jungle”, e un ulteriore Ep) e dalla successiva indigestione live che li ha portati per la prima volta da headliner negli Stati Uniti, oltreché a rimorchio dei venerati Stiff Little Fingers nel tour del quarantennale. Il frutto della montagna di esperienze di questo biennio oltremodo intenso è però il più classico dei topolini, un disco tanto raffazzonato a livello compositivo quanto sconclusionato nella virata che azzarda sul piano espressivo.

In fondo basterebbe da sola la copertina, piuttosto tremenda anche a voler concedere l’attenuante della tamarrata ironica, per farsi un’idea sufficientemente verosimile. Machismo a sei corde, riff tonanti ma anche una sconfortante pochezza di idee spendibili a fronte di uno schematismo sempre uguale a se stesso, urlato e abbastanza dozzinale: il limpido revival power-pop che li ha fatti apprezzare cede il passo a una scimmiottatura hard-rock tanto epidermica quanto insulsa. Poi, certo, sotto la crosta muscolare la band si affanna per presentare ancora il proprio volto spensierato e amabilmente leggerino (“Soldier”), ma la zavorra formale, un certo gaudente tono trionfalistico e i relativi – insopportabili – scaracchi maudit (“Boys”) vanificano lo sforzo perché i Death By Unga Bunga hanno perso ogni credibilità anche in quanto a indole svaccata e disimpegno.

Le melodie di ieri, improvvidamente anabolizzate per ricollocarli dalle parti di un arena-rock smargiasso, non hanno mai buon gioco nel centrare il bersaglio e a completare lo sfacelo pensano gli onanismi seventies delle due rombanti elettriche, un discreto obbrobrio che tanfa di virtuosismo trash e viene ribadito anche dal cambio di look, dai caschetti à-la Byrds alle zazzere e ai baffi a manubrio di novelli Spinal Tap. Anche il frontman Sebastian Ulstad Olsen, a tal punto calato nelle nuove vesti, recita ampiamente sopra le righe e contribuisce a lasciare appunto una fastidiosa impressione d’artificio.
A parte l’alleggerimento gradevole e vecchia scuola di “I’m No Provider”, non si segnala l’ombra di una deviazione stilistica, di un ripensamento garage che conservi quel briciolo di sincerità, o di un po’ di sana sporcizia a imbrattare le pagine del tedioso eserciziario. Così “So Far, So Good, So Cool” non decolla mai, come parodia non funziona e fa pure peggio quando si scelga di adottare una chiave di lettura scevra da valutazioni metamusicali. Con tutta la sua inutile enfasi da axemen fuori tempo massimo, il ruolino del gruppo si attesta su livelli anche deteriori. Facevano simpatia questi ragazzotti scandinavi, ora quando va bene annoiano, fasulli come una moneta da tre euro.

Potranno servire da esempio, quantomeno: se un pessimo disco si riconosce già dalla copertina, come in questo caso, c’è da tremare per quanto potrebbe riservarci l’imminente nuova fatica di una band sin qui ineccepibile, The Coral. L’appuntamento con “Move Through The Dawn” è fissato per la metà di agosto.

16/06/2018

Tracklist

  1. Haunt Me      
  2. Soldier
  3. Cynical          
  4. Internet (interlude)    
  5. So Cool          
  6. Into The Night          
  7. Turn My Brain Off    
  8. Space Face (interlude)          
  9. Boys   
  10. I’m No Provider        
  11. Bye Bye

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