Ben Knox Miller e Jeff Prystowsky avevano una grande passione comune: il baseball. Tra una partita e un’altra, però, non disdegnavano la musica, passando dal jazz al rock, scoprendo poi il blues e il country, prima di mettere in piedi la propria band. Dopo aver raggiunto la notorietà con l’album “Smart Flesh” nel 2011, i Low Anthem hanno viaggiato in lungo e largo per l’America, suonando in tour con The Avett Brothers, Timber Timbre, Emmylou Harris, Iron & Wine (con i quali hanno anche inciso uno split-album, “Daytrotter Session”), incrociando perfino i Chieftains e Bruce Springsteen (Moody Theatre, Austin – Texas).
Successivamente, una colonna sonora (“Arcadia”), un progetto collaterale inciso sotto le mentite spoglie di famosi politici americani (Snake Wagon, “Have Fun With Snake Wagon”) e la realizzazione di uno studio di registrazione hanno aperto nuove frontiere per la band di Providence, culminate nella pubblicazione del loro album più sperimentale e controverso (“Eyeland”). Lo scarso riscontro commerciale di quest’ultimo progetto, il definitivo fallimento della loro casa discografica e il grave incidente accaduto durante un recente tour avevano messo in dubbio il futuro della band, ma la pubblicazione di “The Salt Doll Went To Measure The Depths Of The Sea” ha rimesso in moto Ben e Jeffrey.
Il nuovo album prende spunto da un racconto carpito all’interno di una biografia di John Cale, la protagonista è una bambola di sale che viene a conoscenza della sua provenienza, ovvero l’oceano, mettendo un dito nell’acqua la bambola impara qualcosa, ma il dito si scoglie, più si bagna più impara, trovando la conoscenza di sé nella completa dissoluzione. Anche la musica scorre come una fiaba, dissolvendo man mano le residue trame folk in favore di una sequenza fluida e cristallina che si nutre di trombe, fiati, violini, glitch, morbide percussioni, tastiere e rumori lievi che tengono desta l’attenzione, nonostante il tono riflessivo e rilassato delle dodici tracce.
I Low Anthem indugiano su poche note di piano (“Bone Of Sailor, Bone Of Bird”), estraggono dal cappello magico melodie senza tempo né luogo (“Give My Body Back”), fino a raggiungere la perfetta simbiosi tra atmosfera e scrittura nell’ipnotica “Drownsy Dowsing Dolls” e nella fiabesca “River Brine”. Spesso la musica vira decisamente verso la folktronica, lasciando rifluire quel lieve brusio fatto di loop e fumose atmosfere minimali che facevano capolino in “Smart Flesh”, attirando nel loro canzoniere curiose inflessioni alla James Blake (si ascolti la sequenza “Dotway”, “Cy Twomby By Campfire”, “Gondwanaland”).
Alfine con “The Salt Doll Went To Measure The Depths Of The Sea” la band americana ripristina parte di quella magia crepuscolare e suggestiva che gli eccessi di “Eyeland“ avevano scompigliato, anche se a volte il tono dimesso e indolente può apparire lievemente soporifero. Questo avviene in parte per l’estrinseca natura lo-fi e il tono più naif, frutto delle limitazioni causate dalla perdita della strumentazione, ma nonostante tutto la band cattura quella acerba bellezza che ha sempre contraddistinto il suo percorso creativo.
Più che una rinascita, il nuovo album dei Low Anthem è l’ennesimo tassello di una delle band più vitali del moderno country, un gruppo di musicisti che fa tesoro dei propri errori mettendo in discussione anche il favore del pubblico, restando coerente a un percorso di crescita musicale che tra alti e bassi regala piccole oasi come quest’ultimo capitolo.
Ben ritrovati.
08/03/2018