Micah P. Hinson

When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You

2018 (Full Time Hobby)
apocalyptic slowcore, folk-rock, americana

Piove sangue, dal cielo nero di Micah. Uno sregolato diventa solenne quando assume dei codici, spietato quando li rompe. A strappare il rullino virato seppia aveva già provveduto "Presents The Holy Strangers", ma stavolta il taglio è irreversibile: è la stessa possibilità figurativa ad affogare in uno spettrale suprematismo bicromatico, pittato sull'insegna scrostata di un saloon. Farraginoso ma lapidario come l'autore, anche il titolo sembra rubato da qualche filmaccio western (possibilmente uno il cui duello finale si svolge nella piana di Giosafat), ma il punto è un altro: per una volta il protagonista relega in secondo piano la sua orchestra immaginaria e sceglie di parlare in prima persona, col massimo della chiarezza concessa a un profeta menomato e dislessico. Forse perché è davvero rimasto solo, con se stesso, le sue ferite rosse e la sua notte nera. Forse perché non c'è più niente, oltre quella notte, e quando è tutto buio non ha senso nascondersi.

Eppure solo non è, il giovane-vecchio Micah, anzi non è mai stato in così buona compagnia: ad affiancarlo c'è infatti una folta schiera di amici fidati, selezionati tra quelli che "had shown him a new way to think, a new way to play, a new way to master life and death". Quanto al mondo là fuori, traballa ma è ancora al suo posto: è lui, semmai, che sta cadendo a pezzi.
Insomma, che succede? Succede che è arrivata la resa dei conti, quella definitiva, e il nostro eroe non intende tirarsi indietro. E' dai primi vagiti della carriera che il texano dagli occhi di fuoco sviscera le proprie cadute e risalite, ma adesso è giunto il suo personalissimo Giorno del Giudizio: una fine da cui possa germogliare un nuovo inizio, seguendo le maree della sua ruvida, tormentata spiritualità. Altro che buio, dunque: mai prima d'ora aveva progettato un'opera così luminosa, proprio perché la luce rimane una promessa, e come tale brilla del lampo sovrannaturale delle visioni.

Mette in atto i suoi propositi con una meticolosità ritualizzata, di cui è capace solo una persona allo sbando: sette canzoni scritte in un paio di settimane, registrate in un solo giorno "da qualche parte in Texas", rigorosamente con equipaggiamento analogico e riverberi naturali. Tornare all'origine per rinascere: i cliché, nelle mani giuste, diventano bombe a mano.
Si diceva degli accompagnatori: il capo non vuole dirci chi sono, quasi per proteggere dei complici a cui ha garantito di addossarsi tutta la colpa. Mani senza nome, in una banda che però un nome ce l'ha, ancora una volta: "The Musicians Of The Apocalypse", come gli strumentisti di pietra che, nella cattedrale di Santiago de Compostela, attorniano San Giacomo. Santo non è mai stato, il peccatore Micah, ma il calvario che racconta è reale come un brutto incidente, e la sua armata l'Apocalisse la scatena per davvero: non vomitando caos, che è già trionfante e va semmai arginato, ma inducendo un'ipnosi che possa rimettere in riga il mondo, un cadavere gettato sopra la tastiera di un organo a canne, generando bordoni così profondi da fermare il Tempo. Non c'è spazio per le prediche, si passa direttamente ai fatti.

E' pertanto una stasi cosmica, quella che avvolge "I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back", ma che sta così dentro alla realtà e alla vita da compenetrarle e ricomprenderle nel suo fluire. La preparazione è laboriosa: un minuto intero di scricchiolii e rumori d'ambiente per dar spessore alla messa in scena, con l'orchestra che si attarda a provare fino al fischio d'inizio. Il mormorare sfinito di un condannato a morte che si avvia al patibolo, in bocca versi che non le mandano a dire ("That wishing well won't stop the spell of sorrow/ Knowing all the things I have seen") e la via hinsoniana allo slowcore è servita, col passo inesorabile di una carovana di disperati tra la polvere: provateci a fermarlo con una pugnalata alla schiena, un uomo che sta cercando la Verità.
Di colpo la marcia s'interrompe, le nubi si addensano e la voce si satura di violenti presagi d'Amore e Morte, dylaniata da un Hammond mercuriale: è "The Sleep Of The Damned", inquieto e senza sogni come un presente soffocante che minaccia di durare per sempre.

Quella stessa voce si accartoccia in un sussurro intorpidito nei dubbi blasfemi di "Fuck Your Wisdom" ("I am nowhere/ I am nothing/ I feel sadness I wish you could heal/ You are nothing/ You are nowhere/ Do you feel sadness you wish I could steal?"), un Guy Clark per carezze di chitarra e piano scordato, e poco dopo si sdoppia come in preda a una possessione tra la batteria compressa e i riverberi a molla della title track, evocando immagini biblicamente desolanti ("Elders are all gone/ Hobbling from city gates/ Young men have stopped their music/ Our women have folded to mourning "). Nel finale scroscia una pioggia tarkovskijana che, c'è da giurarci, non cesserà tanto presto, e anzi diventa subito tempesta nell'assalto à-la Spector di "Small Spaces", furibonda nel suo urlare al vento e nel vento ("Come fit my god into smaller spaces/ Where he won't know my shame/ Or the way I feel abandoned").

Torna l'acustica a prosciugare il Diluvio e ciò che rimane è la filastrocca in controfase di "My Blood Will Call Out To You From The Ground", attraversata da una speranza tutt'altro che rassicurante nel suo calcato infantilismo ("There I go to my wishing well/ Looking for true love/ Watching misery make my bed"). Dopo la buonanotte, il sonno (della ragione) eterno: i nove, impressionanti minuti strumentali di "The Skulls Of Christ” sono quanto di più insolito e spaventoso Micah abbia mai composto. Invischiata di disturbati sample televisivi (predicatori, politicanti, giornalisti: il caos dei nostri tempi, se non di tutti i tempi), comincia come "When The Levee Breaks" e finisce come "I Heard You Looking", in mezzo sgraziate lacerazioni di leva, muro di distorsioni siderali, grumo di silenzio, incubo di rumore e un coro angelico che ingoia l'universo intero nella sua maestosa risacca. Le parole possiamo solo immaginarle, ma al cospetto della Parola non sono più nemmeno pensabili.

Raccolta breve di episodi lunghi, rarefatta eppure densissima, è il suo disco più cupo e meno tragico: una prerogativa delle cose destinate a rimanere. Il folksinger con la chitarra ammazza-fascisti è definitivamente seppellito, e qualsiasi cosa seguirà questo asteroide farà bene a lui e male a noi. Come una freccia che, scoccata con la giusta mira, può solo uccidere.

16/11/2018

Tracklist

  1. I Am Looking For The Truth, Not A Knife In The Back
  2. The Sleep Of The Damned
  3. Fuck Your Wisdom
  4. When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot To Destroy You
  5. Small Spaces
  6. My Blood Will Call Out To You From The Ground
  7. The Skulls Of Christ

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