Arrivata al giro di boa del fatidico decimo album, la premiata ditta Agust/Vieira ("and then there were two", dopo innumerevoli cambi di line-up) fa un po' il sunto di due decadi di attività dei Gus Gus, tracciando un bilancio complessivo in attesa di ripartire con qualcosa di nuovo e, si spera, più creativo. Questo "Lies Are More Flexible" è infatti disco assai anonimo, privo dei necessari spunti creativi che il marchio richiederebbe e che i fan dovrebbero aspettarsi. Un lavoro buttato via di getto e dato alle stampe giusto per dare il contentino alla casa discografica, viene quasi da pensare.
Comunque sia, siamo ben lontani dell'epicità di
"Arabian Horse", e pure dal più accessibile e pop
"Mexico" di quattro anni fa. E senza nemmeno andare a scomodare il vero capolavoro degli islandesi, per chi scrive, e cioè l'ormai lontano "Polydistortion"
. Poca creatività, quindi. E nessuna novità di rilievo rispetto alla produzione passata, se non una maggiore presenza di strumentali che, a voler essere maliziosi, potrebbe essere un indizio molto forte di una vena artistica che va scemando.
Nelle otto tracce del disco, divise salomonicamente in parti uguali tra quelle cantate da Agust e gli strumentali, troviamo un compendio di tutti i classici elementi che condiscono gli album dei nordici: arpeggi di synth,
beat ipnotici e suadenti,
intro di atmosfera che anticipano la cassa in 4/4, dance elettronica tendente alla
progressive, qualche spruzzata di
wave qui e là in alternanza a reminiscenze synth-pop, senza tralasciare l'influenza sempre imperante dell'elettronica da club tedesca degli anni 90. Si gioca spesso al ribasso, col pilota automatico inserito. Il livello delle composizioni galleggia sulla soglia della sufficienza, non c'è alcun brano che spicca per potenziale, che colpisca al primo impatto. Tutto fila via liscio, piatto e senza sussulti, senza nemmeno invogliare ascolti meno distratti. Manca chiaramente un singolo trascinante come "Over"
, o una "Obnoxiously Sexual", a voler essere di bocca buona.
In compenso nei
backing vocals di "Don't Know How To Love" troviamo il cameo di
John Grant, che ne dovrà fare a iosa di comparsate per sdebitarsi del gran lavoro in regia di Biggi nel suo
"Pale Green Ghost", mentre il fantasma degli anni 80 da bere si aggira minaccioso in tutta la prima metà del disco, e un
Jean-Michel Jarre versione 2.0 sguazza compiaciuto tra i tappeti di synth in "Featherlight", primo singolo estratto.
Non sono immuni da questo mood retrò neanche le strumentali, tra le quali l'unica interessante - e anche la punta di diamante del disco - è la title track, dal piglio e dal groove decisamente eighties, simile a certa produzione dei Chromatics, con una bass line molto incisiva che fa molto "
Looking For Love"
.Per il resto, sembra quasi di ascoltare demo appena abbozzati ("No Manual") e una "Fuel" nel finale che rimane accartocciata su se stessa invece di aprirsi in una melodia efficace a dar respiro agli otti minuti complessivi.
A dirla tutta, sarebbe bastato un Ep. Nulla di più semplice.
09/03/2018