Zac Carper era stato di parola: nel terzo album dei Fidlar ci sarebbero stati un po' di esperimenti. Una precisazione doverosa, quantomeno per giocare d'anticipo nei confronti dei fan dello skate-punk, genere a cui la band è sempre stata associata. “Almost Free” si materializza dopo un anno e mezzo di lavoro da parte dei quattro losangelini e del produttore Ricky Reed, abili nel palleggiarsi il materiale seguendo uno schema di stratificazioni successive il cui intento appare (a posteriori) quello di guadagnare esposizione nelle radio rock americane.
A cominciare dall'inaspettato e dozzinale
Beastie-mood di "Get Off My Rock", piazzato in apertura, è infatti quantomai evidente l'allontanamento dalla frenesia squisitamente punkettara del passato, in favore di un più rassicurante
portfolio di riferimenti. Si va dalla fascinazione per i
Black Keys ("Can't You See", "Flake") alla brama di scrivere la nuova "Blurred Lines" in "By Myself" (e non è un caso che Ricky Reed vanti collaborazioni con Robin Thicke), passando per lo psych-pop vagamente
Kula Shaker di "Scam Likely" e le
ballad come "Called You Twice" o "Good Times Are Over".
Sarebbe tuttavia riduttivo derubricare questo capitolo discografico a mero esperimento, dal momento che i Fidlar restano una
party-band vogliosa di interpretare uno stile di vita
fedele all'ormai vetusto cliché "sesso, droga e rock'n'roll" (vetusto per via del rock'n'roll, ovviamente). Al limite, viene spontanea una riflessione sui continui riferimenti alla sobrietà dichiarata da Carper già durante la fase promozionale del precedente
"Too" , che oggi fanno il paio con il titolo di questo "Almost Free" (se di libertà dalle dipendenze si sta parlando), e che in realtà restano invece incagliati sul consueto e disinvolto utilizzo di testi chiaramente antitetici (si veda il primo singolo "Alcohol", o "Kick"); una dissonanza cognitiva che tradisce alternativamente calcolo e confusione, in definitiva però perfetta per validare la
summa filosofica della band.
Non è in discussione che i Fidlar sappiano scrivere buone song (persino strumentali, come la title track) o che Zac incarni sempre il punto di vista di un giovane americano bianco mediamente disadattato ("Too Real"); il punto è che il cambio di sonorità con il quale la band prova a emanciparsi dai suoi esordi lascia sul tavolo, ancor più che in passato, le carte che servirebbero a dare coerenza a un album tirato per la giacchetta in più direzioni.
Come accadrebbe in una divertente festa alcolica, d'altronde.
30/01/2019