Un giorno qualcuno troverà il tempo per raccontarci la favola di un gruppo olandese (scusate se li chiamo ancora olandesi) dal nome breve quanto memorabile: Nits. Per molti Henk Hofstede, Alex Roelofs, Michiel Peters e Rob Kloet erano solo i membri dell’ennesima band out of England che inseguiva il sogno di diventare i nuovi Beatles. Svegli ed esperti, furono coloro che in quel primo capitolo targato 1978 riuscirono a separare le suggestioni pop dalle atmosfere melodiche e brumose, che di li a poco avrebbero modificato il percorso creativo della band.
L’eco del successo cult del singolo “Tutti ragazzi” giunse perfino alla Columbia, che scritturò senza indugi i giovani olandesi, senza immaginare che la sapiente mano del produttore e tastierista Robert Jan Stips, più che diradare la nebbia, aspirava a confondere ancor di più le acque, simulando prima tentazioni pop-punk (“Tent”), per poi spostare l’asse creativo verso un barocco art-pop che metteva insieme le ambizioni del progressive-rock, le innovazioni dell’elettronica dei Kraftwerk e le ansie della generazione post-punk (“Adieu, Sweet Bahnhof”).
Il dado era tratto, la band olandese aveva modificato il proprio assetto, psichedelia, avantgarde, chamber-pop alla Xtc, minimalismo e post-rock, erano ora le nuove coordinate di un gruppo capace di mettere in fila quattro meraviglie (“Giant Normal Dwarf”, 1990; “Ting”, 1992; “dA dA dA”, 1994; “Alankomaat”, 1998), destinate a un successo di nicchia o circoscritto alla madre patria. Tutti gli album pubblicati successivamente nel nuovo millennio (ben otto) hanno tenuto fede alle promesse, senza però ripetere i fasti di quel magico quartetto, almeno fino a quando Henk Hofstede non ha giocato la carta più rischiosa, ovvero affidare all’improvvisazione la genesi di “Knot”.
Registrate nel loro studio Werf ad Amsterdam (con la formazione ridotta ormai a un trio: Henk Hofstede, Rob Kloet e Robert Jan Stips ), le undici tracce dell’album numero ventisette dei Nits sono undici tappe di un viaggio senza fine e senza meta, un flusso sonoro ardimentoso e poetico che non ha eguali. “Knot” conferma la volontà della band di restare fuori dalla prevedibilità del formato-canzone: sono più simili a delle sculture, le nuove composizioni dei Nits, visceralmente romantiche come un disco di Marvin Gaye (“Ultramarine”) e profonde come una confessione di Mark Hollis (“The Delta Works”).
Guai a perdersi in questi labirinti sonori senza avere avuto in dono un filo rosso, non ci sono appigli emotivi ai quali aggrapparsi, l’unica certezza è quell’inconfondibile e algido tocco che da sempre accompagna le creazioni della band. Generare emozioni profonde e travolgenti con minime e semiminime è arte per pochi, non so se i Nits abbiano affrontato “Knot” con un bagaglio tecnico così ardimentoso, ma il risultato è altrettanto dotto e sapiente (“Dead Rat Ball”), quelle ipnotiche danze che i Pink Floyd lasciavano a mezz’aria (“The Garden Centre”), o quelle enigmatiche e oscure sonorità elettroniche alle quali David Sylvian donava calore e colore (“The Blue Car”) ora sono materia grigia sulla quale sperimentare l’impossibile (“The Electric Pond”) o raccontare pagine personali e dolorose (la perdita della madre di Henk in “The Concrete House”).
In “Knot” l’immobilità diviene movimento, l’inganno è la stessa realtà, è una giostra di suoni dove la bellezza incontra passato, presente e futuro (“Music Box With Ballerina”). Per gli olandesi è giunto il momento di elevarsi oltre la coltre di nebbia, ed è ciò che avviene con questo capolavoro di sintesi e prospettive future; un album che toglie il respiro e come per magia lo fa utilizzando ancora una volta solo quattro lettere, dopo “Tent”, “Work”, “Kilo”, “Henk”, “Ting”, “Wool”, i Nits (quattro lettere) con “Knot” riannodano i fili di una carriera ultraquarantennale che merita di essere apprezzata da un numero di ascoltatori sempre più ampio.
08/01/2020