È possibile ri-tarare l'urgenza espressiva e la genuinità di un suono orgogliosamente DIY dopo che uno dei membri fondatori abbandona la band fresca di album di debutto per tornare a dedicarsi a un progetto lasciato in sospeso? Hanno fatto i conti con l'annosa questione i
Priests, a conclusione del tour di
"Nothing Feels Natural", quando il bassista Taylor Mulitz ha preferito rimettere in pista i
Flasher, in un certo senso la sua vera creatura fin dai tempi dell'università; una decisione ovviamente ben lontana dai piani dell'ormai terzetto di Washington Dc, e sufficientemente estraniante per far riflettere sull'ipotetica fine di una "political/punk" band ritenuta da molti perfetta per raccogliere le istanze anti-Trump.
In quel doppio aggettivo, andato sempre un po' stretto ai diretti interessati, è invece identificabile il carattere che una piccola realtà come la Sister Polygon (etichetta creata da loro stessi nel 2012) ha conferito in termini di integrità artistica e che, nel momento di difficoltà, sembrava invece non essere più sufficiente a illuminare il percorso. Su consiglio del loro editore, i Priests hanno quindi per la prima volta pascolato fuori dalla
comfort zone, rivolgendosi all'ubiqua figura del produttore
John Congleton.
Frutto di questa collaborazione è ancora una volta un disco politico nella sua accezione primaria: il titolo riecheggia il libro dell'economista Thomas Frank, "What's the matter with Kansas?", che spiega il passaggio dello stato americano dalle sue origini liberali al rigido conservatorismo come riflesso dei maggiori cambiamenti ideologici americani (una transizione che lo ha fatto diventare in tempi recenti vero e proprio ago della bilancia per l'elezione di Trump), ma il contenuto si focalizza sulla disamina degli aspetti riprovevoli della personalità umana, con l'intenzione di renderli manifesti attraverso storie di personaggi più o meno fittizi.
A confronto con la trattazione degli effetti del capitalismo sull'identità personale presenti in "Nothing Feels Natural", spalleggiata da un suono nervoso equamente diviso tra post-punk e chitarre
surf, il nuovo lavoro riserva episodi di lucentezza pop piuttosto inusuali, abbracciando un senso di premura che fa ruggire Katie Alice Greer in "Jesus’ Son" e "Good Time Charlie", o che la rende al contempo fragile e disperata nella sognante deriva
new wave della
title track (evidente anche nel
sound à la Visage di "68 Screen").
"Control Freak" estende all'ascoltatore dinamiche che la stessa Katie sostiene di aver vissuto in seno alla band (“I feel misunderstood, like I’m some kind of enemy/ When I’m the one in charge of all the things that make you happy”), mentre in "I'm Clean" è una figura assassina e vendicativa tutta al femminile a fornire le lenti attraverso cui modellare la visuale su prospettive sconvenienti, il tutto senza mai far mancare l'opportuna dose di glamour.
In definitiva, meno
Sleater-Kinney e più
Blondie, per un disco che prende atto delle difficoltà di partenza ma si mostra maturo nel trattarle (compiacendosene lungo la strada), supportato dal lavoro di precisione di Congleton, impegnato a rendere meno spigolosa la chitarra di G.L. Jaguar e più personale il contributo vocale della batterista Daniele Daniele.
Al di là del gestire la dipartita di Mulitz, i Priests sostengono di avere imparato molto sull'America e sui suoi eroi (grandi o piccoli) durante il tour, soprattutto sospendendo il giudizio in favore di una inclusività che permette loro di vedere sostanzialmente meglio il quadro complessivo.
Coi tempi che corrono, è forse l'atto più politico di tutti.
19/04/2019