Per i Tacocat il “grande salto” a mamma Sub Pop sembrava essere diventato ormai soltanto una questione di tempo: vuoi per la dislocazione geografica del gruppo (Longview, non lontano da Seattle), vuoi perché i primi due album uscivano per la sussidiaria Hardly Art, e infine anche per una mera questione musicale che vede il gruppo per tre quarti femminile fare riferimento a una certa estetica nineties.
“This Mess Is a Place” si posiziona esattamente nella scia degli album precedenti, inscenando un bubblegum pop-rock che guarda al movimento riot grrrls più che altro per il risvolto ideologico delle canzoni che, al femminismo di sempre, aggiungono ora la critica all'amministrazione Trump. Per strada però è andata persa un po' della freschezza degli esordi, nonostante le dieci canzoni di questo terzo lavoro in studio provino a trattenere lo smalto di sempre: il metronomo resta in media elevato, le melodie non mancano di strizzare l'occhio a scenari da spiagge assolate, come nello pseudo-funk di “Grains Of Salt”, forse il capitolo più propriamente pop in scaletta.
Più in generale la scaletta si muove tra coordinate garage oriented – “Hologram”, “Little Friend” - e accelerazioni punk-pop come “New World” e “The Problem”, con Breeders e Sleater-Kinney che rimangono sempre sullo sfondo, più totem ai quali ispirarsi che modelli ai quali rifarsi. Non manca il capitolo surf-rock, qui rappresentato da “The Joke Of Life” che, in ultima analisi, è forse anche il migliore estratto.
Niente di nuovo (né di particolarmente eccitante) sul fronte occidentale, ma “This Mess Is A Place” resta a suo modo una frivola colonna sonora delle prossime giornate estive.
(24/05/2019)