Per la precisione è ai Sessanta inoltrati che mirano i The Mighties, a quel periodo in cui degenerò l'endemica tendenza a straziare le lasse membra del rock’n’roll con fuzzbox e distorsioni varie. Non a caso, ascoltando "Augustus" – 11 tracce per quasi mezz’ora di musica – si fa strada il fondato sospetto che i ragazzi perugini abbiano fatto indigestione di band come The Fuzztones, Black Lips, Sonics, Lyres, New York Dolls, The Creation e delle leggendarie raccolte "Back from the Grave" e "Nuggets". E se nella conclusiva e faceta “Shudybabybop” sembra di sentire persino il britpop dei Pulp o di Damon Albarn, l’ossigeno per il cuore pulsante di “Augustus” è il revival delle band che dettarono il look, la prossemica e la mitologia del punk che verrà. Peraltro, un saggio di quel punk è presente anche nell’incalzante “Chinese Drop”, terza e più violenta traccia del disco. Se “Casablanca” comunica con un accento desertico, “Simon Brown” pare citare i Caesars di “Jerk it Out” per poi aprirsi in un rock’n’roll d’antan e lasciare che l'elegiaca "Church of R'n'R" celebri la funzione con romantica e sacrale ispirazione.
Il pericolo che una musica dritta e trascinante dal vivo come quella dei The Mighties possa perdere in studio nerbo e vigore è dietro l’angolo, ma il bello di “Augustus” è che ciò non accade. Chi non è avvezzo alle sonorità garage ha tra le mani un giocattolo da armeggiare alla bisogna, apprezzandone le sue curate e godibili smussature (dietro al vetro Jacopo Gigliotti dei Fast Animals And Slow Kids e al mastering John Kerry, da Atlanta, già con i Black Lips in Arabia Mountain). Chi invece di musica così ne ingoia a iosa non potrà che apprezzare l'omaggio e la devozione di chi crede che certa musica non abbia mai smesso di esistere, ma che continui a respirare negli strumenti di chi la suona, nelle orecchie di chi la ascolta e nelle scarpe di chi la pesta.
(17/04/2019)