Le sue immagini sono cesellate al pari di creazioni di un artigianato assai prezioso a baciar rime in modo cadenzato. Le armonizzazioni, pur rispettando un codice, quello del folk di cui segue il tracciato, sanno anche sorprendere come in “Il sogno di una madre”, “Al fuoco di Luna”.
Gli arrangiamenti sono tra le cose più riuscite dell’album a impiegare con dovizia strumentazione etnica ed elettronica post-rock di lusso, ma anche aggraziate ed evocative onomatopee, come in “All’alba una terra”, “Pane e catene”, il carillon dell’opener “Una storia altrui”, il flauto sintetico di “Il sogno di una madre”, i suoni marini di “Terra che senti”, il pianoforte ridotto a sfavillio in “Vorrei parlare con le città”.
Il calore e la grazia della voce conosce Fabrizio De André, Mario Castelnuovo, ma anche Bill Callahan. La produzione è di una precisione cristallina tant’è l’equilibrio che si respira tra questi solchi. Un concept che non ha un brano cardine, ma che merita di essere assaporato piano nella sua interezza, come un piccolo romanzo, o meglio una raccolta di racconti su unico tema con un’introduzione, tre atti e una conclusione. Una semplicità mai banale fatta di danze ubriache all’alba, a raccontare la vita come in un angolo di carne cruda in cui non c’è solo ferita ma anche la cura dello scorrere del tempo a lasciare solo qualche sbiadito ricordo pur custodito con gioia. Un piccolo, grande gioiello di cantautorato nostrano dei nostri tempi.
(04/04/2021)