Una notorietà in questo caso supportata anche da una grossa casa discografica, pronta a mettere le mani sulla gallina dalle uova d’oro, la Columbia /Sony (vi ricorda qualcosa ammiratori di X Factor?), per poi licenziare la band al primo segnale negativo: il secondo album infatti non entrò nei top 100 e fallì la conquista della platea europea.
Eppure le credenziali e le potenzialità per sfondare c’erano tutte: un briciolo di indie-pop, una leggerezza utile a far digerire il noise-pop e i residui punk che rendevano l’operazione credibile e salutare anche agli occhi della critica colta e una dose malcelata di synth-pop. Peccato che i Cults non siano mai andati oltre una convincente freschezza, dovuta all’età giovane e a un’estetica calibrata a suon di dollaroni. Il vuoto lasciato dall’inconsistenza delle composizioni non ha perdonato al duo il ritorno in scena sotto l’egida di una piccola label, né il ruolo di outsider della scena indipendente ha convinto al punto da offrire ai Cults una pronta redenzione.
“Host” prova a far sorridere l’ascoltare trattenendo i synth su tonalità più solari e spensierate o introducendo sonorità non solo sintetiche ma perfino naturali (violini, percussioni, trombe), ma credo che nemmeno il buon Vincenzo Mollica riuscirebbe a convincervi della bontà dei Cults. Ci sono citazioni infinite a cui poter ricorrere per rendere dorata la pillola (Phil Spector, Beatles e perfino Prefab Sprout) ma il tempo delle mele è finito, e quelle dei Cults sono mele vecchie e scongelate senza grazia. Alla band non resta che un po’ di dignità residua, quella stessa che dovrebbe consigliare al duo di finirla qui.
(27/12/2020)