Se state ascoltando l'ultimo di Arca o un singolo di SOPHIE mentre leggete questa recensione, allora preparatevi a fare un bel viaggio nel passato. Riecco il suono caldo degli amplificatori valvolari, il ruvido gracchiare delle chitarre e il vigoroso urlo, maschio fino al parodistico, del vero rocker. Lasciate stare l'Adderall di Danny Brown e la codeina di Travis Scott, ma anche l'acido lisergico dei nonnetti hippie e mettetevi, metaforicamente, una esagerata dose di marijuana a vostra disposizione, per fini ludico-ricreativi. Via le cuffiette bluetooth hi-tech, lasciate stare quella Coca Zero e aprite invece la triplo malto che patisce nel ripiano alto della vostra cucina, orfana di attenzioni da troppe settimane.
Alzate il volume ben oltre ogni possibile timore verso le forze dell'ordine, che al momento sono sicuramente impegnate altrove e in più importanti faccende. Se siete un uomo, vestite lo sdrucito e un po' imbarazzante giubbotto di pelle che prende polvere da quando siete impiegati ingrigiti e i pantaloni più strappati che riuscite a rimediare. Se siete una donna, azzardate una lingerie che lasci così poco alla fantasia da scatenarla, complice la gonna più esplicita che trovate impacchettata nel cassettone degli abiti desueti, accoppiata a un top che urla in faccia a tutti la vostra spregiudicatezza. Ignorate il buon gusto e masticate un chewing-gum, se vi aiuta a calarvi nella parte. Oppure, vestitevi come diavolo vi pare, ma interpretando il voi stessi più scorretto, volgare, buzzurro che possiate immaginare. Insomma, preparate il campo come si deve e premete play sul vostro hi-fi, che potete tranquillamente non premurarvi di spolverare. Partirà "Red River" e vi ritroverete all'improvviso nel 1999.
Se proprio il trip non inizia, assicuratevi di aver adottato tutte le misure suggerite e, soprattutto, sospendete l'incredulità: ora c'è "Ode To Ganymede", tutta blues-rock e decibel e voi avete vent'anni in meno e infinite possibilità in più. Qualora vi venisse voglia riascoltare il vero blues del deserto, quello fatto dai fondatori e non dagli epigoni, allora state bevendo troppo poco e fumando una dose insufficiente della vostra marijuana, quella metaforica beninteso. Il trucco è zittire il cervello, alzare ancora il volume e continuare a evadere dal presente: ci dice "Sernanders Krog" che volendo possiamo librarci persino nel cosmo, fluttuando nell'aria come inebriati in modo totalizzante, e al ritorno ci sentiremo solo storditi e bisognosi di uno o due Moment.
Se poi anche riatterrassimo al suolo, rimbalzeremmo indistruttibili come il groove di "Ol' Mule Pepe" e "Sun Devil/M 87*", prima che sopraggiunga una languida, assordante sensazione di confusione, intitolata "Pipe Rider": undici minuti e mezzo per spremere le ultime gocce di edonismo da questa fantasia nostalgica, bruciando di una energia erotica e vitalistica che è difficile conservare anche quando i pensieri riguardano tasse, scadenze, responsabilità, malattie; il basso rotola sotto i lamenti della chitarra, echeggiando ancora una volta la psichedelia americana di cinquant'anni prima, quindi riecco la via di fuga verso il cosmo che occhieggia e di nuovo fa sperare di poter davvero volare, almeno per un momento.
Mi raccomando, gestite con eleganza e dignità la fine dell'ascolto e il ritorno alla realtà, solo non buttate via la lingerie triviale, il giubbotto demodé e le cartine, perché potrebbe capitarvi di volerle ritirare fuori per il prossimo viaggio nostalgico, la prossima volta che vorrete fingere che dal 1999 non è poi cambiato molto. Fate come i Lowrider, che hanno atteso vent'anni per far finta che non sia accaduto poi granché, mentre accumulavano il loro ritardo sesquipedale: è una scusa con cui ci si può cullare, ognuno a modo suo, per tre quarti d'ora di un pomeriggio noioso.
(26/03/2020)