Giusto che c'era, perché non rispolverare pure il marchio Zelienople, quiescente da cinque anni or sono? Detto fatto. Ci sono tutti: il basso sotterraneo di Brian Harding, le sommesse percussioni di Mike Weis (nel frattempo irrobustitosi in un ensemble di musica zen), la chitarra opalescente e la voce tutta di naso del leader. Dalla copertina evocativa ai titoli laconici, anche gli ingredienti sono quelli che si riconoscono a occhi chiusi. Paradossalmente, le coordinate sono ribadite con tanta meticolosità da forgiare la loro raccolta più esemplare, unitaria, solida. Certo, è un azzardo scientifico ricorrere a questo termine per sei tracce che aleggiano ben oltre lo stato gassoso: canzoni che ci sono e non ci sono, strumenti toccati più che suonati, droni prossimi alla trascendenza. Musica che rimane in sospensione senza decollare mai, un'autostrada percorsa a notte fonda da un sonnambulo, un sudario che non ha mai avvolto un corpo. Cinematografica, si precipiterebbe a decretare un critico poco fantasioso.
"Safer" inizia come se fosse in corso da sempre, "America" si interrompe ma non certo per concludersi. I tasti rec e stop si riducono a cesure su un flusso perenne, organizzatori di senso di una materia che non si riesce ad afferrare. Christensen ha lasciato intendere che a far scattare la reunion sia stata la dipartita di Mark Hollis, ma queste diafane melopee rimandano a scenari più narcoletticamente americani, con fermate nei motel dei primi Early Day Miners e dei Labradford. Nulla di troppo impegnativo, comunque, anzi una mezz'oretta di musica che scorre facile e si lascia riascoltare volentieri, con il suo culmine nella dilatata title track centrale.
It's only slowcore, ma di quello onesto, in un periodo in cui certo non fa tendenza. Rinnovarsi non è così indispensabile, quando si è tanto ostinati nella propria rarefatta missione. Una prova di coerenza che in fin dei conti suscita rispetto, e una salutare pausa dall'imperversante autismo di questo Stachanov del riverbero.
(14/04/2020)