Dopo due prove da solista interessanti ma a tratti incerte, Charles Spearin, polistrumentista già membro dei
Broken Social Scene e
Do Make Say Think, trova finalmente il bandolo della matassa, mettendo a segno un album dinamico e sapientemente esuberante.
Avantgarde, art-rock,
progressive, post-rock ed elettronica offrono linfa vitale a un disco eclettico e pericolosamente ambizioso. Il musicista canadese tiene le fila del progetto attraverso un linguaggio jazz che alterna virtuosismi a potenti soluzioni strumentali, prediligendo una narrazione sonora più tipica di una colonna sonora.
Sempre meno avvezzo al fascino della parola, Spearin modella tredici composizioni che si incastrano senza alcuno sforzo narrativo, giocando altresì sulla contrapposizione concettuale tra eleganza estetica e complessità della scrittura.
Il musicista tiene a bada la personale e notevole perizia tecnica, offrendo spazio a giocose incursioni di glockenspiel e ottoni su efficaci e lineari
groove post-rock (“Portrait Of The Artist As A Thursday”, brano del quale esiste una
infinite version di ben 12 ore), allo stesso tempo doma la natura descrittiva dei
field recording con effluvi armonici suadenti (“Diaspora”).
A metà del percorso Spearin seduce la forza del canto asservendola a improvvise deflagrazioni di liturgia sonora, che passano dall’incanto spirituale di “Three Voices (Braided Carefully)” alla fisicità estatica di “My Heart Is An Appaloosa In Canter”, per trovare infine sintesi nell’aliena ballata che da titolo all’album: un brano che al di sotto di una più regolare forma cantata quasi folk-pop nasconde tempi dispari, virtuosismi jazz/prog e cambi di intonazioni e sfumature che offrono spazio a esoteriche raffinatezze strumentali.
L’accelerazione ritmica di “Death By Onomatopoeia” e “Sometimes It Hurts To Be Alive” e la citazione funky/soul di “Rutting Season” riportano per un attimo l’attenzione su agili strutture art-pop, recuperando velocemente quella delicatezza descrittiva filmico/pittorica delle prime tracce, tra atmosfere sospese (“The Morning Dew Lay Heavy On The Grass”) e improbabili gospel-folk (“The Wedding”), che, al pari delle restanti tracce, offrono più di quanto sia percettibile a un primo fugace ascolto.