La scrittura, non sempre particolarmente brillante e incisiva, a volte resta sommersa dalla gravità strumentale e stilistica, ma i riferimenti sono comunque nobili (Mount Erie, Jason Molina, Bonnie Prince Billy), anche se a volte manca quella flessuosità che proprio il polistrumentista ha reso palese e fondamentale per l’evoluzione del suo ex-gruppo.
D’altro canto, la padronanza della materia in oggetto permette a Jodi di abbracciare stimoli culturali e sonori diversi, che spesso lasciano fluire l’impeto melodico necessario per uscire dall’anonimato. Questo avviene soprattutto nell’ottima “Hawks”, che beneficia di un refrain incisivo e di uno shuffle ritmico che tiene insieme le pulsioni country, pop e soft-noir. Il suono della lap steel padroneggia le egualmente vivaci trame di “Get Back”, che non sfigurerebbe in un album di inediti di Neil Young era “Harvest”.
Ad onor del vero, “Blue Heron” è un lavoro sapiente ed empatico quanto basta per garantirsi senza problemi uno spazio nell’ingente messa di pubblicazioni contemporanee, ma la brevità dell’album, meno di trenta minuti, lascia in sospeso una marea di interrogativi. La vivacità country-oriented di “Go Slowly”, i ruvidi accordi della oscura ballata “Buddy”, il pregevole equilibrio soft-slowcore dell’ottima “Softy” forse meritavano una cornice più completa e priva di banalità (“River Rocks”, “Water”).
Si avverte, infine, la mancanza di quello slancio necessario per distinguersi dalla marea di cantautori tristi e annoiati: “Blue Heron” ha dalla sua alcune canzoni molto potenti, ma l’insieme rimanda al prossimo capitolo per un’analisi più valida del percorso intrapreso dal musicista americano.
(29/10/2021)