Possedeva già un'espressività unica ai tempi dei "Three Eps", entrati ormai nel gotha della scena dubstep, da lì in poi però il linguaggio di Sam Shackleton ha attraversato lo spazio-tempo e ha percorso un sentiero di progressiva astrazione, di maturazione di un lessico sempre più lontano dai dancefloor, votato a ricercate cornici concettuali e a rarefatte esplorazioni esoteriche. Alla volta del suo terzo album solista, primo dopo nove anni, è evidente come il canovaccio tracciato dai "Drawbar Organ Eps" abbia segnato tutta la produzione futura del musicista, con tratti alieni, sfuggenti, che in "Departing Like Rivers" giunge a piena maturazione stilistica. Privo delle impalcature tematiche che hanno contraddistinto molta della recente produzione, teso piuttosto a esplorare le possibilità di un sound affinato in un lungo dialogo con se stesso, l'album è l'esplorazione nei sfilacciati labirinti di un'ambient ricolma di mistero, in cui sentimento ed evocazione procedono di pari passo, svelando le loro reciproche sfumature. Venire a capo di un significato rimane comunque un'operazione priva di senso.
Ben più velata, nebulosa rispetto a precedenti produzioni che invece tradiscono la reciproca cooperazione col collaboratore scelto, l'ora dell'album inscena un teatro sonoro che non necessariamente si è dimenticato delle vibrazioni dub degli esordi (l'attacco di "Something Tells Me" ne è testimone) ma che preferisce snaturarne totalmente il potenziale conduttivo, il valore ritmico, lasciandolo stemperare in gradazioni ambientali e scenari elettronici dalla carica psichedelica. Non che il ritmo sia totalmente assente: "Few Are Chosen" si affida a un basso doom e a lente cadenze di batteria che di loro incrociano il quartomondismo impossibile di Kilchhofer alle minacce arcane dei primi Coil. Sono però solo parentesi fugaci, marginali rispetto a un lavoro che invita a una distensione immersiva, in cui i rari contributi umani (campionamenti spesso anche di rilievo, si veda Werner Herzog nella sinistra profondità di "The Turbulent Sea") appaiono divorati dal tempo, fagocitati verso una dimensione del tutto nuova, priva di appigli precisi.
L'ambiguità, insomma, la fa da padrona, e tale confusione percettiva fa sì che passato (affidato a nebulose trasfigurazioni di antiche ballate folk) e futuro diventino una massa indistinta, un caos organizzato attorno a un nucleo occulto che lascia affiorare la suggestiva severità di un decennio in una forma più compatta. Tra linee vocali piegate a mantra per divinità ignote (l'imperscrutabile "The Light That Was Hidden"), nervose ipnosi sott'acqua ("Shimmer, Then Fade"), flussi di nebbiosa rievocazione (il sinuoso tribalismo di "Transformed Into Love") Shackleton addensa la sua ricerca in un disco dai marcati contrasti timbrici, piegati però a una visione unitaria, che invita all'abbandono.
Forse certe nervature più cupe renderanno l'esperienza leggermente meno accomodante del previsto, in fondo però questo è un aggettivo inesistente negli universi paralleli del musicista.
18/01/2022