In un Paese in cui ancora il rock centra le classifiche senza problemi, le Tricot rimangono una delle punte di diamante in materia di competenza tecnica e fantasia compositiva. Questo si palesa immediatamente anche nel loro sesto album, diventando anzi il punto focale nel modo in cui l'inizio di qualsiasi brano viene poi progressivamente trasformato, che sia un cambio di tempo, l'introduzione di dettagli strumentali peculiari, improvvise decelerazioni e altrettanto fulminanti impennate. Concentrarsi su questo dato è al solito elettrizzante: Hiromi Hirohiro disegna col basso linee irresistibili, Yusuke Yoshida è come sempre un mattatore della batteria e Ikkyu Nakajima scansiona i brani con la fantasia istrionica che da sempre ne muove le interpretazioni.
Divertirsi è quindi molto semplice, talvolta gli stessi andamenti melodici catalizzano sorrisi assicurati: ha un che dei Genie High la buffa "Dogs And Ducks", nel modo in cui trasporta il suo nonsense lirico all'interno dell'esecuzione stessa, e gli scatti fragorosi di "Inai" sono capaci di trasformare il melodismo vintage delle Kinoco Hotel in un frizzante saggio hard-pop-core.
È là dove i toni rallentano, dove si cerca un tratto emotivo più marcato, che l'album fatica a lasciare una vera impressione. Per quanto brulicante, con fuzz chitarristici e venature psichedeliche di contorno, "Kayoko" fa ben poco per andare oltre uno stanco melodismo dream-pop. E così pure "Yoru no mamono", che ben attacca col solo binomio voce-chitarra, vede di evolvere in un'alquanto prevedibile ballata che manca sia del pathos di una Ringo Shiina che della potenza di una Superfly.
Forse un pizzico di compattezza in più non avrebbe guastato: indubbiamente le Tricot andranno avanti nella ridefinizione del loro fervido linguaggio musicale, e far breccia con nuovi aspetti del proprio sound male non fa. Che sia però necessario un pizzico di riposo?
(21/01/2022)