La cover, cupa e scarna, dell'album non rende giustizia al quartetto che, asserragliato nel suo fortino heavy/proto-punk, non cambia strategia e anzi si concede fino all'ultima goccia già nel preludio “March Of The Troglodytes” e nell'iniziale title track, tripudio di wah-wah e sax. Il boogie stellare di “Times Up” lascia spazio allo swagger proto-metal di “The Kenzo Shake” e il blues-rock hawkwindiano di “Venom”, tempestato di wah-wah, frena inesorabile per trovarsi tra i detriti space-rock di “The Comedown”, prima dell'impennata iper-stoogesiana di “Deathwish 1970”.
I riferimenti nelle note parlano di Lemmy, Nik Turner e viagra: quella degli Ecstatic Vision è una musica muscolare, primitiva e rozza, che si accontenta di sognare all'infinito l'improbabile utopia in cui la Londra degli Hawkwind e la Detroit di Mc5 e Stooges coincidono con lo Zambia degli anni 70.
Complice anche la presenza in studio di Joe Boldizar (che aveva registrato l'esordio “Sonic Praise”) e di Bob Pantella (dei Monster Magnet), gli Ecstatic Vision tornano alle sonorità più aggressive dei primi due album, dimenticandosi la lezione psichedelica dell'ottimo “For The Masses” del 2019: nonostante il gradito ritorno, un po' di amaro in bocca resta per una band che, forse, potrebbe permettersi di rischiare qualcosa in più.
(20/05/2022)