Continua anche l'esplorazione musicale per Hendrik Weber, al secolo Pantha du Prince, con un disco forse ancora più minimalista dei precedenti, questa volta ancora più nell'accezione originale del termine, quella data alla musica di La Monte Young. La riduzione del suono a un'essenza concettuale è a dire il vero stata sempre una priorità di Weber, se pensiamo a dischi come "Elements Of Light" o "Black Noise", sebbene quest ultimo spazi in territori più techno.
Il disco si presenta quasi in continua ripetizione, con un registro prevalentemente modale, che fa proprio ricordare le esperienze musicali di La Monte Young, se non addirittura in alcuni frangenti quelle del Quarto Mondo di Jon Hassell.
Su questa base teorica Pantha du Prince pensa la sua musica in modo libero e istintivo, e lascia scorrere questo loop di suono applicandone le variazioni modali a poco a poco, caratteristica propria della musica indiana, talvolta anche dell'organum medievale. Questa modalità lo ha contraddistinto soprattutto dai lavori successivi a "Black Noise", e se da un lato la scelta può risultare un appiattimento, qualcuno direbbe anche spersonalizzazione, bisognerebbe invece pensare al fatto che dietro a questa linea, c'è anche un desiderio di rendere la sua musica globale, collettiva.
"Garden Gaia" risulta la conclusione della riflessione avviata già con "Conference Of Trees", riflessione dai tratti marcatamente ambientalisti. Può una musica come la techno - figlia delle macchine e vessillo nel dancefloor della civiltà dell'industria e della sua conseguente alienazione, dei pistoni di Detroit e delle acciaierie tedesche - farsi portavoce della questione ecologica? Forse sì, perché dietro a un suono che a volte può risultare monocorde, si nasconde molto di più. Basti pensare che anche la techno di Detroit nacque più come sfogo istintivo e atto di ribellione all'alienazione, proprio utilizzando il suono stesso delle macchine. Basti pensare a Jeff Mills e allo stesso Weber, che nella produzione di "Black Noise" si è isolato nella Baviera, per rendere il suono, seppur digitale, il più incontaminato e naturale possibile.
Altro elemento che ne ha reso unico il suono sin dai tempi del suo lavoro più importante, "This Bliss" (2007), è l'utilizzo ripetitivo delle campane tibetane e degli scacciapensieri come sample, oltre allo xilofono, che risulta a volte sobrio se non impercettibile. In questo disco - va subito precisato - non siamo assolutamente ai livelli di "This Bliss", che vantava non solo una qualità sonora davvero notevole, ma una creatività nel dispiegare la melodia che Weber ha mantenuto intatta perlomeno fino a "Black Noise", per poi smarrirla in "Elements Of Light". Weber qui invece favorisce un ulteriore approfondimento sugli utilizzi del materiale da cui ricavare il suono. Dal digitale si ritorna alla materia grezza e tribale, le essenze del legno diventano la varietà da cui attingere una vasta gamma di ritmo. Dal vivo a le Nuits Sonores aveva portato in scena proprio una rudimentale quanto complessa sorta di xilofono gigante, in varie essenze di legno, da cui generare un'infinita varietà di tonalità percussive.
Questo "Garden Gaia" non presenta grandi guizzi melodici come "Walden", "Saturn Strobe" o "Behind The Stars". Se l'intuizione del suo concept risale a questi due lavoroni, con un suono veramente potente e strutturato, oltre a una vena compositiva unica, va ricordato anche che nell'ultimo decennio Weber ha dilatato notevolmente il suono, concentrandosi su un'introspezione molto più minimalista. Il paesaggio musicale descritto sembra quello di tutti quei tedeschi che interrompono le loro estenuanti routine lavorative per concedersi l'estasi delle spiagge e della natura più esotica, dove panorami di ben più ampio respiro li distolgono dal tedio della realtà industriale. Non è un caso che proprio una comunità tedesca, di impronta buddhista, sia presente da tempo a La Gomera, nell'arcipelago delle Canarie, ad accogliere proprio i conterranei nell'isola, rifocillandone lo spirito.
Su queste coordinate Weber dirige la sua attenzione in modo disincantato ma rilassato, già a partire da "Open Day", traccia di apertura, senza pretese melodiche e tutta giocata su una melodia basilare. "Heaven Is Where You Are" smorza la grancassa di "Black Noise" e anela a un ipotetico Eden, ripetendo che forse esso è più vicino di quanto crediamo, se solo ci mettessimo sulla retta via. può ricordare a tratti la sua "Stick To My Side".
Questa tematica rimane sottesa a tutte le tracce del disco, con pezzi a segno come "Start A New Life" o "Blume", a volte riprendendo le coordinate sonore di "Elements Of Light" ("Liquid Lights", "Golden Galactic"), altre volte con esiti decisamente minimalisti ("Alles Fuhlt"), in altre occasioni, invece, con sviluppi più percussivi, vicini alla world music ("Mother Drum", con rimandi ai lavori di Hassell con Brian Eno).
Nel complesso è un disco onesto, seppur monotono. Non introduce novità melodiche di rilievo, ma nella sua attitudine positiva esce allo scoperto, in una celebrazione della bellezza della Terra e della vita qui ed ora, tanto bella quanto esagerata come può sembrare.
03/09/2022