Più che un album folk, “In Embudo“ è un’epifania. Mary Elizabeth Remington è una voce che appartiene alla natura, alla terra, un talento che nasce e germoglia nella campagna di Harwick, Massachusetts, un'autrice che nella propria musica narra l’indissolubile binomio tra creatività e ambiente.
All’arte della pittura, della scultura e della musica, Remington ha unito la passione per la terra, lavorando nei campi, scavando l’argilla, tagliando la pietra. Le sue canzoni sono la colonna sonora di una quotidianità fatta di piccole cose, di quell’imperscrutabile magia che ci cattura quando ci fermiamo a contemplare la bellezza della natura.
Dopo una timida apparizione al Kerrville Folk Festival nel 2013, la folksinger ha atteso alcuni anni prima di registrare un vero e proprio album.
Le session di “In Embudo” risalgono al 2019 e alcune notizie, ormai disperse dai recenti comunicati stampa che hanno accompagnato la pubblicazione in vinile, catturano nel 2020 il primo rilascio in forma digitale di queste undici tracce.
Di fronte a tanta bellezza poco importa quale sia l'anno di pubblicazione di questo prezioso gioiellino, un disco nato sotto l’ala protettrice di Adrianne Lenker e James Krivchenia dei Big Thief e di Mat Davidson dei Twain.
Non ci vuole molto per comprendere il perché di questa collaborazione. Registrato live tra le mura di casa su un registratore a quattro tracce, “In Embudo” è un disco fuori da una definita dimensione temporale. Una raccolta di folk-song che perfino Alan Lomax confonderebbe con antichi canti tradizionali. Un set di canzoni tanto potenti quanto profonde, spirituali, antiche e moderne nello stesso tempo.
L’esordio di Mary Elizabeth Remington è il trionfo dell’energia naturale delle sette note, che si tratti del rituale scandire di percussioni e oggetti di vetro in “Holdfast” o della toccante e struggente malinconia della folk song da falò “All Words”, la sensazione prevalente è quella di essere al cospetto di uno dei pochi album che merita l’appellativo di folk-music come identificativo di una musica che nasce dalla persone e a esse si rivolge, un concentrato di talento e intensità poetica che lascia il segno.
Quelle di Mary Elizabeth Remington sono canzoni d’amore intonate a due voci ("Voglio restare sdraiato qui tutta la notte e conversare con te, voglio andare in giro e cambiare marcia a Dresser Hill con te, voglio accordare questo violino e cantare una canzone con te, ma tesoro non posso innamorarmi di te", “Dresser Hill”), bozzetti armonici dotati una vitalità genuina (“Mother”), brani contraddistinti ora dal tocco di una pedal steel (“Wind Wind”), ora da delicate armonie vocali e chitarristiche (“Tuesday”), mai prive di una ragion d’essere.
Remington affida le proprie canzoni al silenzio e al fascino essenziale della voce (“Green Grass”), o al suono della pioggia o di un ruscello (“Water Song”). Anche l’inattesa, conviviale risata tra Mary e Adrianne (nella quasi filastrocca di “Mary Mary”) diventa elemento peculiare di un set di canzoni che dona momenti di riflessione ("Bruciando ciò che ha toccato e ha toccato così tanta terra, ora posso vedere la sagoma di chi pensavo tu fossi, mostrami chi sei", “Fire”), di nostalgia e consapevolezza ("Se dovessi dirti che va tutto bene, diavolo allora mentirò", “Wooden Roads”), senza restare preda sia dell’eccessivo minimalismo strumentale sia dei costanti cliché della musica folk.
Facile tessere le lodi di molte produzioni di cantautorato folk contemporaneo, alle quali non mancano eleganza e contenuti, più complesso suggerire un album come “In Embudo”. Mary Elizabeth Remington non è in cerca d’approvazione o riconoscimento critico, queste undici tracce sono la celebrazione dell’imperfezione, della schiettezza, della purezza della musica in quanto arte. Un racconto intimo e decisamente empatico, per un disco che profuma di terra, di legno, di foglie smosse dal vento, di vita reale.
(24/02/2023)