Daidarabotchi, che in italiano significa più o meno “gigante”, è una stirpe di spaventosi esseri dalle fattezze umanoidi. Somigliano a dei preti calvi con grandi occhi roteanti, lingua a penzoloni e pelle scurissima color catrame, dalle dimensioni talmente mastodontiche da riuscire a modellare il pianeta con pochi, semplici tocchi. Costruiscono montagne accumulando rocce e ne spostano intere altre a proprio piacimento, scavando dietro sé lungo il tragitto stagni e vallate a mo' di impronte dei piedi. Per questo, secondo una diffusa credenza del folklore yōkai (che si occupa di fantasmi, presenze demoniache e altre creature malefiche), sono ritenuti responsabili di molte caratteristiche del paesaggio e si dice ad esempio che le nascite del Monte Fuji e del lago Biwa siano da attribuirsi al loro volere, o che l'altopiano Takabotchi nel parco di Nagano si sia formato quando uno di essi si sdraiò in terra a riposare.
Poiché il mito sopravvive da millenni in ogni angolo del Giappone, vengono chiamati in innumerevoli modi alternativi, tra cui “Daidara Bou”, variante particolarmente in uso nella prefettura di Gunma oltreché titolo del nuovo album del film-maker e documentarista Noriaki Okamoto, che risiede in pianta stabile in quella regione dell'isola ormai da tempo. L'artista ha difatti scelto di abbandonare la vecchia dimora di Tokio e il caos metropolitano per immergersi anima e corpo nella quiete del posto, dove ha trovato una sorta di catarsi creativa di cui lo spirito delle sue sessioni/ossessioni creative pare miracolosamente beneficiare.
Si tratta della seconda opera sulla lunga distanza firmata con lo pseudonimo “Norio”, dopo il discreto esordio “Somebody” del 2022. A differenza della precedente stavolta però si configura come un concept di delicati acquerelli che dipingono l'intricato rapporto tra uomo e natura, ispirandosi alla mitologia locale. “Il lavoro alla macchina da presa mi ha portato spesso a contatto con gli splendidi scorci della zona, laghi, montagne e sorgenti termali le cui origini risalgono alle leggende dei crudeli Daidarabotchi”, ha raccontato il musicista nipponico a proposito di un affresco sonoro di grande sensibilità che malgrado la cheta e rilassante tempra minimal-ambient di superficie si nutre in realtà di paure e conflitti. “Ho cominciato a meditare, credo che Daidara Bou sia la natura stessa sotto forma di mostro, bella, capricciosa e a volte terrificante, pensiamo di poterla controllare ma ne siamo minacciati. Però ha un cuore, attraverso il quale ho voluto sciogliere l'eterno dilemma”.
L'ascolto è molto meno complicato delle premesse, ma altrettanto ricco, e si risolve in dieci accattivanti haiku strumentali dall'impalcatura neo-classica, intimista e introspettiva. I brani sono tutti scritti e arrangiati completamente da Norio, eccezion fatta per la malinconica traccia d'apertura “Giant” (in collaborazione con Moshimoss) e per quella lunghissima di chiusura “Negura” (della durata di quasi sette minuti), composta assieme alla collega conterranea Satomimagae, che aggiunge alla trama una flebile componente vocale dal singhiozzante respiro dream-pop. Il resto della scaletta intesse litanie acustiche scarne ma altamente evocative (“Hūm”, “Nagi”), dove suggestioni folk dal sapore antico (“Ohko”, “Tsuduki”) lasciano spazio ora al crepitio di moderne atmosfere post-rock (“Sandpit”, “Kokoro”) ora a ondeggianti filastrocche pianistiche (“Tomoshibi”, ”12 Hands”).
Il rumore non sovrasta mai il suono, ma evade il senso dell'ineluttabile riempiendo i vuoti, come la natura trafigge l'uomo senza poter mai annientare l'emozione. Consigliato a chi ha ancora tempo per fermarsi e osservare.
11/11/2023