Perfettamente rispondente a un aspetto così importante del suo paese, l'autore (cresciuto in Nuova Zelanda e quindi padrone di un ottimo inglese) segna con "The Greng Jai Piece" un importante balzo in avanti nei termini di una scrittura più fine e personale, così come di un significativo ampliamento stilistico, che si lascia tentare dal groove e veste abiti più sofisticati. Più attento e consapevole, Viphurit sta progressivamente sbocciando.
Certo, sposerà pienamente il greng jai, eppure l'autore sa come eluderne le maglie, esprimersi in maniera diretta, a suo modo pure sottilmente provocatoria: attenuati gli atteggiamenti romantici, Viphurit e la sua chitarra non rinunciano necessariamente alla dolcezza (l'introduttiva "Temple Fair" un vero colpo al cuore, con un tocco che ricorda il primo Nutini) ma sanno parlare di vergogna, trattare lo status morale con opportuno spirito critico (il funky ciondolante di "Greng Jai Please"), affrontare la depressione senza retorica, con la sola speranza di un domani più sereno (il reggae camuffato di "Healing House", capace di risolversi in un breakbeat d'atmosfera).
Tra sottili doppi sensi ("Lady Papaya" e i suoi svagati colori big-beat) e delicati notturni dall'anima ballabile (la chiusura dance, in scia Lekman, di "Welcome Change") la penna di Viphurit sa muoversi agilmente in ogni contesto, dosando slancio e riflessione in egual misura.
Poco scombinano due contributi esterni che non aggiungono molto a un album fermamente individuale: in una presa di posizione che inquadra la pluralità di prospettive dell'autore, "The Greng Jai Piece" smuove mondi e visioni difformi, ma che qui trovano la giusta complementarietà, in un parco di melodie che testimoniano tutta la maturazione di Phum Viphurit. Un pizzico di dinamismo in più e le premesse per qualcosa di ancora più sostanzioso ci sono tutte.
(17/03/2023)