La trasformazione del territorio connessa all’attività speculativa è un dato di fatto a cui è ancora difficile abituarsi. La distruzione dell’ambiente, operata per fini discutibili, sottrae spesso aree a cui si è profondamente legati e cristallizzarne l’essenza prima che ciò avvenga diviene atto imprescindibile. È esattamente da una simile istanza che muove il quarto lavoro solista di Robin Saville - noto soprattutto per essere co-intestatario insieme a Antony Ryan dei seminali Isan - dalla volontà di catturare la voce di una geografia destinata a scomparire in nome di un discutibile sviluppo.
I field recordings naturalistici, ottenuti attraversando i luoghi con microfono e registratore negli orari più disparati, vengono abilmente intrecciati dal musicista inglese in una trama sottile di stille armoniche e pulsazioni gentili. L’insieme non si discosta molto dalle atmosfere ovattate tracciate in duo, mantenendo inalterato il tocco misurato nel plasmare una materia orientata all’ambient e tendente a una luminosa malinconia. Come i colori di sfondo della copertina strutturano i vari reperti naturali in essa ritratti, la tessitura di rintocchi metallici e frequenze sintetiche dà ordine e senso al canto degli uccelli e a tutte le risonanze catalogate, costruendo una narrazione dal fluire lieve.
L’iniziale “Judith Avenue” è un ottimo esempio di tale pratica compositiva, capace di scivolare - nella breve “Beltrane” e soprattutto nella conclusiva “Belfry” – verso formulazioni giocose dominate da un’elettronica essenziale, comunque sempre declinata per definire soundscape melodici e accattivanti. Questa inclinazione ludica è riscontrabile ugualmente in “Theberton Public Road No1”, la traccia più complessa del lotto caratterizzata da una sottile attitudine new age e da sonorità dal marcato gusto esotico. Il risultato è un album elegante, certamente non innovativo, ma molto godibile. Una riflessione in musica agrodolce su una parte di mondo in inesorabile disgregazione.
11/09/2023