Che la musica di Aleksander Dębicz possieda spiccate qualità cinematiche ha quasi del tautologico. Un album d'esordio eloquentemente introdotto dal titolo "Cinematic Piano" e la prolifica attività come compositore per il cinema e il teatro mostrano il legame indissolubile che unisce il pianista polacco al mondo della settima arte, in tutte le sue sfaccettature. Non sorprende, quindi, come anche progetti non direttamente ascrivibili a un impegno cinematografico finiscano col condividere un simile humus, assorbire un tocco evocativo che sappia fare a meno di immagini concrete e svilupparle esso stesso, in un flusso coerente e ordinato.
Alla volta di "Magnolia", sesto album in carriera, tale abilità trova piena maturazione: ciclo floreale legato all'impermanenza della bellezza, si evolve in quadretti d'intensa caratura melodica, lasciati sbocciare fino a rivelare il proprio profumo, poi prontamente interrotti, prima che un nuovo tassello rinnovi lo stupore e la passione. Neanche quaranta minuti, affiora un bouquet intero.
Con un tocco cauto, una gestione delle progressioni che la natura collaborativa del disco dirige verso un ambizioso gioco di equilibri, l'album elabora il proprio nucleo tematico con piena lucidità, mostrando Dębicz come navigato interprete del dinamismo. Brillanti commenti del cornista Konrad Gołda accompagnano il graduale risveglio dei sensi che interessa il giardino protagonista di "Where Flowers Bloom", un albeggiare dalle forme grandiose, che il pianoforte spiega con un tema melodico di crescente intensità.
Lungi dall'andare a parare in zona Rimskij-Korsakov, "Bee" si sofferma invece su un tenue dettaglio del giardino stesso, l'incessante volo di un'ape rappresentato da un'abile cooperazione tra i tasti di avorio e un intelligente crescendo di violoncello, una vorticosa danza della natura che ha più di un punto in contatto con la straordinaria opera dei Rachel's.
Col fare del migliore Satie, "Orchid" viaggia alla volta del mistero, il flauto di Michał Żak a farsi foriero di enigmatici accenti folk, sopra un lento ostinato pianistico. Vi è anche spazio per la voce, opportunamente sovrapposta a far sì che il contraltista Jakub Józef Orliński faccia di "Cedar Tree" un luminoso arabesco corale, con Dębicz a individuare agilmente il proprio Debussy interiore.
Poco importa che sia tutta un'illusione, che tanta bellezza sia destinata a svanire così com'è arrivata. Vale comunque la pena inseguire questi attimi, lasciarsi anche sorprendere dal dubbio e da emozioni sovrastanti (il gran piano che tuoneggia nell'interludio spartiacque). Anche fosse soltanto un minuto, un precario volteggiare dei sensi nel mare dell'esistenza, merita comunque che venga immortalato (il rapidissimo droneggiare d'ambiente della title track). Ci penserà poi la pioggia a dilavare tutto, a disperdere i contorni del giardino, fino a renderli tutt'uno con l'acqua (il minimalismo afflitto di "Rain").
Con fare di un'orchestra da camera, "The Garden Of Curiosities" somma infine tutte le direttrici espresse dal disco, accentra le nitide proprietà emotive della musica di Dębicz sfoggiandone la sottigliezza compositiva, il carattere narrativo che quasi riesce a fare a meno di titoli e spunti, mostrandosi pienamente autosufficiente. Non c'è in fondo necessità di uno schermo per immaginarsi un simile rigoglio.
12/09/2024