La carriera di Damon McMahon è un continuo alternarsi di ombre e luci. Le esternazioni musicali sotto il
moniker di Amen Dunes sono da sempre incerte e cangianti, e il nuovo progetto “Death Jokes” non sfugge alla regola.
Da sempre indeciso se far prevalere l’anima cantautorale (“Love”), quella più pop ed estroversa (“Freedom”) o l’oscura attitudine psichedelica (“Through Donkey Jaw”), McMahon rispolvera le strutture aspre e incompiute dei primi album, per un disco ambizioso e complesso che sposta di nuovo l’asse verso la psichedelia.
Registrato in completa autonomia produttiva, “Death Jokes” giunge dopo un periodo ricco di problematiche personali (Covid, complicazioni respiratorie, calo di peso rilevante, il trasferimento a Woodstock, la nascita di un figlio), ma anche dopo un importante cambio di casa discografica: dalla Sacred Bones alla Sub Pop.
A mescolare nuovamente le carte ci pensa l’elettronica, elemento che insieme al piano, strumento che McMahon ha approcciato in tempi recenti, assume un ruolo fondamentale nell’attuale prospettiva sonora. La svolta pop di “Freedom” aveva senz’altro arricchito l’austero stile compositivo del musicista, nello stesso tempo aveva evidenziato i limiti di una decisiva sterzata verso lidi decisamente più convenzionali.
Con “Death Jokes” Amen Dunes sgretola le vecchie alchimie senza indugio. Già dalle movenze stranianti di “Ian” è evidente che anche le melodie più lineari non hanno vita facile, il brano è infatti incastonato tra due brevi scorci strumentali (la
title track e “Joyrider”) che se in parte mitigano il tono più greve e oscuro del progetto, d’altro canto anticipano alcune digressioni sperimentali debolmente incidentali ("Predator" e "Solo Tape”) che contagiano una delle pagine più deboli del disco come “Rugby Child”.
Non particolarmente eccelse ma sempre particolari, le doti vocali dell’autore sono l’unico vero handicap di un disco riuscito, doti che fanno bella mostra di sé nella
pop ballad stile
Beck “Boys” o nell’originale elettro-dub di “Purple Land”, ma cedono il passo proprio quando la scrittura delle canzoni è meno convenzionale e più coraggiosa.
Il nuovo progetto di Amen Dunes è greve e sofferto anche sul versante dei testi, ancor più crudi e non privi di aspre denunce sociali, argomenti che McMahon veste ora di stridii armonici e vocali (“Exodus”), ora di delicate sonorità folk-psych (“Mary Anne”) o sublima in una delle canzoni più riuscite dell’album (”I Don’t Mind”).
I nove minuti e quindici secondi di “Round The World” rappresentano lo sforzo compositivo più innovativo di “Death Jokes”, un agrodolce e solenne crescendo dalle seducenti sembianze psichedeliche e art-pop che lascia un deciso segno nel canzoniere dell’anno in corso, offrendo un’ulteriore chiave di lettura di un progetto dalla natura avventurosa e poco convenzionale.
La sfida di McMahon alla prevedibilità e alla routine è appena iniziata e il risultato è decisamente interessante. Con “Death Jokes” Amen Dunes riscopre ispirazione e caos con egual candore e onestà intellettuale, grazie a un album che, nonostante alcune imperfezioni, non vi lascerà indifferenti.