Dietro il moniker A Smog Museo si cela Nazario Graziano, un poliedrico artista molisano, ora di stanza nelle Marche, che oltre a essere un provetto musicista è anche un affermato illustratore e collagista. In tale veste ha infatti realizzato opere per alcune delle più importanti riviste italiane e internazionali oltre che per molteplici brand di assoluto rilievo. Per questo non poteva esimersi dal curare anche le cover dei suoi album, realizzando sempre immagini dal grande impatto visivo come quella, particolarmente riuscita, che accompagna questo lavoro.
Prima di esaminare il suo attuale progetto solista, occorre menzionare i suoi esordi come chitarrista e fondatore della band Il rumore del fiore di carta, con la quale nei primi anni Duemila ha dato alla luce tre lavori post-rock molto interessanti.
Venendo a questo album, il secondo dopo “Untitled 01” del 2022, Graziano dimostra di aver fatto tesoro della sua esperienza nel gruppo, realizzando un pregiato mix di elettronica e post-rock con diverse contaminazioni che lambiscono il trip-hop.
La tecnica del collage sembra essere stata utilizzata anche nella produzione musicale dato che le trame sono piene di sovraincisioni come nel pezzo d’apertura “Holy Mountain/Samashtiti”, secondo singolo che ha anticipato l’uscita dell’album, che inizia lento e fumoso tra docili beat e pacate drum machine per poi aumentare d’intensità in un crescendo di voci effettate e riverberi digitali.
Rispetto al primo album e agli esordi con Il Rumore del Fiore di Carta, il nostro ha abbandonato la chitarra per dedicarsi completamente a un suono più elettronico, attraverso un dosato utilizzo di dispositivi analogici e digitali.
Degne di nota “Crystal Forest”, con le sue morbide tastiere e il suo andamento ipnotico in vago stile Four Tet, e “Drama Movies For The Cosmos” con il suo incedere tipicamente post-rock impreziosito da cosmiche distese sintetiche.
A seguire un pezzo interlocutorio dalle coordinate molto vicine a “Fittier Happier” dei Radiohead, contenuta in “Ok Computer”, ovvero “I’m A Walkman, I Love You” in cui una voce robotica si adagia su un tappeto sonoro dalle atmosfere cosmiche.
Uno dei maggiori pregi del disco è quello di riuscire a fondere in modo esemplare sonorità nostalgiche a una glaciale elettronica: questo è particolarmente evidente nel trittico finale, che parte con la malinconica “Things We Lost In Eclipse”, caratterizzata da asettici breakbeat che si instaurano su una base eterea molto evocativa a cui fa seguito il vertice assoluto dell’album, “Voodoo Milk Radio”, in cui una base sintetica dai toni particolarmente oscuri anticipa un finale orchestrale che lambisce il free jazz. A chiudere, l’eterea “Analog Dreamscape”, con le sue melodie impalpabili e crepuscolari che rimandano ad alcuni lavori di The Album Leaf.
Meritano un cenno anche le esibizioni live di A Smog Museo, rese ancor più coinvolgenti da una serie di suggestive videoproiezioni.
Parafrasando i succitati Radiohead e uno dei loro pezzi più famosi, “Everything It’s In The Right Place”, qui ogni cosa sembra trovarsi al posto giusto, tutto fila liscio, e se questo è un aspetto indubbiamente positivo, è allo stesso tempo un piccolo limite: avrebbe forse giovato qualche momento di maggiore libertà creativa, un colpo a effetto in grado di sbaragliare le carte in tavola. Al netto di questo, però, “The Poetic Of Space And Time” è un lavoro riuscito che potrà fare felici gli amanti del post-rock e di un certo tipo di musica elettronica, quella più riflessiva e visionaria.
26/04/2025