Qualche giorno fa ho partecipato a un incontro con Federico Fiumani, il leader dei Diaframma, in occasione del quarantennale di "Siberia", uno dei capolavori del post-punk italiano. Nel raccontare degli stati d'animo della band, Fiumani descriveva uno stato di tristezza che si trasferiva nelle canzoni e affermava che registrare l'album non era stato neanche terapeutico. Ho ripensato al termine "terapeutico" ascoltando il nuovo album dei Black Doldrums, "In Limerence". Ho infatti sempre pensato che la mia passione per il post-punk dei primi anni 80 fosse legata al potere guaritore di una musica che tira fuori le emozioni oscure per farcele osservare in modo compassionevole per evitare di farci male. E se è vero che a volte la musica non è di aiuto a chi la compone (vedi Ian Curtis) è vero che quei suoni guariscono le ferite di chi la ascolta. In questo senso va letto l’eterno ritorno a sonorità gotiche da parte di band contemporanee. Guardare in faccia e accettare ansia, angoscia e incertezza come parte della vita in un periodo in cui ci viene chiesto di essere "performanti" (la retorica aziendalista) e "perfetti" (la sindrome di Instagram).
Quindi lunga vita ai Black Doldrums e a tutte le band che, prendendo a prestito suoni di quarant'anni fa, ci aiutano a superare le crisi del presente. Quella del duo londinese non è solo un'operazione calligrafica, ma anche il recupero di un ethos di ricerca interiore che impone di guardarci dentro invece che attraverso lo schermo di uno smartphone. Kevin Gibbard e Sophie Landers con la loro musica ci fanno indugiare nel limbo delle emozioni più recondite, come peraltro suggerisce il nome della band. Lo fanno dal 2019 con uscite che hanno esaltato l'intreccio chitarristico con vocalità eteree, quasi a voler partire da una psichedelia in salsa Jesus & Mary Chain ("She Divine" del 2019) arrivando a un suono che vira verso il dark tenendo fermo lo slancio melodico ("Dead Awake" del 2022).
Ma "In Limerence" (uscito per la Fuzz Club) è un'altra cosa. È potenza allo stato puro, con una produzione che esalta bassi e atmosfere viscerali. È una dichiarazione d'intenti che parte dall'omaggio agli Dei del post-punk per arrivare a un suono fresco che lascia in estasi i conoscitori del genere e, spero, sorpresi tutti gli altri.
Come si può non amare un brano come "Hideaway" che parte dall'arpeggio ossessivo, prosegue con la linea di basso ottundente ed esplode con vortici di chitarre? L'influenza dei Sisters Of Mercy è chiara e dona un'aura di immortalità. Già con questo brano si finisce ko, ma il colpo letale arriva subito dopo con "Dying For You", episodio dolente, che balla sulle note evocative del synth e della linea di basso che gira intorno, mentre la voce di Kevin declama l'atto estremo di un'amante. Siamo dalle parti di "Closer" dei Joy Division e questo la dice tutta sulla potenza evocativa del brano.
"Summer Breeze" prosegue le danze con una ballata chitarristica in stile New Order, tanto per farci capire quali siano le fonti di ispirazione del duo: niente di nuovo ma nell'economia dell'album anche questo brano ha una logica. "Dwell Or Depart" torna sui timbri oscuri e lenti in un pezzo malinconico, in cui è il synth a tornare protagonista, abbellito dal un contorno di trame chitarristiche: poesia, sofferenza, riflessione e voglia di esprimere vulnerabilità.
L'album prosegue tra brume e vicoli oscuri fino a "New Moon" che nel tiro e nelle voci ricorda addirittura gli Smiths, arricchendo così il pantheon degli Dei chiamati a raccolta.
L'amore dei Black Doldrums per la materia post-punk è talmente sincero e vigoroso che trascina anche i più scafati cultori del genere. Le canzoni sono belle e coinvolgenti e si tratta solo di abbandonarsi al flusso emotivo e trarre il meglio da uno degli album più intensi di quest'anno.
23/11/2024