Ascoltando il nuovo disco di Dora Jar, che è anche ufficialmente il suo album d’esordio, è difficile dire se la cantante statunitense sia più ambiziosa o indecisa. Dora Jarkowski, classe 1996, nata a New York ma cresciuta in California, sembra combattere in effetti tra le due anime rappresentate dalle due coste americane, quella dell’artista e quella dell’entertainer, nel lanciarsi con questa tracklist in una ricerca musicale che manca di trovare una definizione univoca e a stento soddisfa le aspettative. Laddove, i critici e anche il pubblico da anni già la segnalano come una delle più interessanti realtà musicali americane, specie dal suo riuscitissimo primo Ep, “Digital Meadow”, del 2021.
Qualcosa da allora è cambiato: forse l’hype attorno alla sua figura, forse proprio l’attesa di un esordio che, come si sa, è un momento fondamentale nella carriera di una artista e può facilmente rivelarsi un passo falso. Ma questo "No Way To Relax When You Are On Fire", che dal titolo sembra promettere euforia e intensità, suona più come una serie di esperimenti in studio, una raccolta di bozze pure raffinate con arrangiamenti completi ma poi lasciate a metà, come a non volerci provare fino in fondo.
Il risultato è un disco che suona incompleto, tiepido, nonostante i momenti più esaltanti (e ce ne sono) e flagellato da errori che ne corrompono l’efficacia: l’imperdonabile fade-out (che nel 2024, diciamolo, dovrebbe ormai essere abolito) in chiusura delle tracce migliori, per esempio; o un intermezzo completamente inutile in “Sometimes All Ways”, altrimenti ottimo pezzo, che viene interrotto come per introdurre una sezione differente o un’altra canzone, salvo poi riprendere ll brano regolarmente dopo una divagazione superflua di solo qualche secondo.
Il fatto è che se avessimo a che fare con una artista sperimentale, una outsider che rigetta i meccanismi dello star-system e della musica mainstream contemporanea, questi “esperimenti” sarebbero anche apprezzabili. Ma Dora Jar non è così, e nel suo caso il problema è forse proprio che non sa bene che tipo di musicista intende essere. Sa che non potrà mai essere una popstar alla Dua Lipa, e va bene così; o neanche una versione di una popstar cantautoriale e semi-ironica, alla St. Vincent o Caroline Polachek; ma non pare nemmeno volersi adagiare sul modello elegante e leggero del bedroom (post-bedroom?) della collega Clairo, né darsi al grunge (neo-grunge?) come Beabadoobee o Soccer Mommy.
Insomma, si trova incastrata tra tutte queste tendenze ma non sembra saperne scegliere una, indecisa come a un rinfresco, provando un po’ di tutto senza ben sapere cosa le piace o cosa, specialmente, può piacere al pubblico. Dora Jar è indie, è bedroom, è nuovo pop? Si può parlare di cantante alternativa, di artista commerciale?
Parliamo delle tracce. “Smoke Out The Window” è probabilmente la migliore, un pop-rock esagitato e ruvido che vuole provocare senza far male a nessuno; segue “Behind The Curtain”, un pregevole folk ritmato e melodico che lungo un crescendo si risolve in una sublime coda distorta e psichedelica. “Puppet” è un altro rock molto grunge, nel quale la cantante esprime la sua volontà di “tagliare i fili” e prendere vie più ardue dove non esistono quelle più semplici: un ottimo brano, ma rovinato, come si diceva, dal criminale fade-out.
“Ragdoll”, una traccia nella quale Dora esprime peculiarmente la sua volontà di essere “maltrattata” dal suo amante, un po’ in controtendenza con la narrazione dominante (pensiamo a "Brat" di Charli XCX, che tanta sensazione ha fatto quest’anno, anche nelle usuali, roboanti istanze di emancipazione femminile) ed esprimendo, nel farlo, malinconia con un certo senso intelligente di oscurità, articolato in un altro bedroom folk ritmato e melodico; questa rimane una delle migliori tracce “integre” assieme a "Timelapse", che suona come un pezzo di Soccer Mommy e si abbandona ad atmosfere da colonna sonora di un film indipendente anni 90.
“She Loves Me” è un canto d’amore rivolto a sé stessa (la “she” del titolo è sempre lei), cosa molto Gen Z, brano acuto nel concept ma meno nelle idee musicali, anche se rappresenta un buon esempio di come Dora stia iniziando a imparare a usare la sua voce come uno strumento (con tanto di acuti alla Yoko Ono in chiusura).
Questi sono più o meno i picchi dell’album. Anche “Cannonball”, un intenso folk psichedelico d’atmosfera, e la barocca “Sometimes All Ways” (quella con la variazione fuori luogo) meritano di certo ripetuti ascolti, mentre il resto delle tracce manca parecchio di originalità (specie, clamorosamente, la title track), per non parlare della chiusura, in “Holy Water”, affidata in un impeto nostalgico al buon vecchio ukulele, che ci auguravamo di aver lasciato negli anni 10.
Una collezione di canzoni, quindi, che sembra andare in varie direzioni e in nessuna allo stesso tempo, consegnando l’immagine di una artista sicuramente in crescita ma che non riesce, per il momento, a capire bene cosa vuole fare e come.
Forse travolta dal suo stesso successo ma già alla soglia dei trent’anni, Dora dovrà sbrigarsi a trovare un percorso da seguire e a tratteggiare con più chiarezza i confini del suo progetto sonoro, se vorrà sopravvivere nel mondo musicale iper-competitivo degli anni 20. Forse in futuro questo suo disco, che segue due Ep e diversi singoli, sarà visto come una fase di passaggio verso qualcosa di straordinario, o forse resterà un momento particolare nella carriera di una artista particolare; difficile dirlo ora. Non è un brutto disco; le idee ci sono e sono tante, i tratti interessanti non mancano e il carisma di Dora Jar emerge, seppur a tratti sfumati. La sensazione è però che si poteva davvero fare di più, e che da lei ci fosse da aspettarsi ben di meglio. Ma forse gli anni ci faranno cambiare idea.
28/09/2024