Non me ne vogliano gli altri membri dei Whispering Sons, ma è indiscutibile che la caratteristica più seducente della formazione belga si insinui nella sepolcrale vocalità espressa da Fenne Kuppens. Un timbro unico, di quelli divisivi, che emana charme sia quando si posiziona su lembi sussurrati, sia nei momenti dove viene sprigionato con prepotenza tra le colate laviche post-punk cesellate dal quintetto.
“The Great Calm” è il loro terzo album, per la prima volta autoprodotto, che pur riprendendo indicativamente il canonico e oscuro canovaccio già gustato nei precedenti lavori, prova ad aprire qualche breccia di flebile luminosità tra quelle stanze opprimenti impregnate di sinistre essenze, che sembrano celare terribili segreti.
Rispetto al predecessore “Several Others” del 2021, le appuntite trame tastieristiche vengono ora dosate con maggior circospezione, in luogo della ritrovata verve chitarristica di Kobe Lijnen che era stata un po' accantonata nel validissimo disco di tre anni fa.
L’album è stato realizzato tra la fine del 2022 e la prima parte del 2023 e ha dovuto tenere conto di alcuni avvicendamenti d’organico, non tanto nella line-up, ma rivolti principalmente a una revisione dei ruoli di comando e di gestione strumentale dell’insieme. Oltre a queste variazioni interne, la band ha dovuto, soprattutto, superare anche importanti problematiche di salute patite da alcuni componenti, situazioni che non hanno affatto nuociuto ai Whispering Sons, in grado di elaborare dodici brani che esondano d’emozione e di severità.
I testi scritti dalla Kuppens sulle musiche predisposte dal resto della band tentano, talvolta, di instillare una parvenza di ottimismo, anche se la sensazione cardine che si ottiene all’ascolto di queste magnetiche tracce è principalmente paragonabile a quella prodotta da una corrente di acqua gelida, impenetrabile, invisibile, che ti avviluppa senza scampo, che offre nel nucleo una fervente percezione di minaccia.
Episodi come “Standstill”, “Dragging”, “Walking, Flying”, “Loose Ends” e “Poor Girl” sono costruiti su un consolidato saliscendi che prevede estensioni strumentali portate, in alcuni frangenti, ai limiti del debordante, come accennato in precedenza, più direzionate verso sonorità post-punk di stampo chitarristico e corroborate dalla possente base ritmica comandata dal bassista Bert Vliegen.
In questo habitat, la stentorea voce di Fenne viaggia con maestria, aggravando e, quando necessario, spaccando la tensione accumulata lungo il percorso.
La già flebile luminosità si affievolisce progressivamente in passaggi quali “Cold City”, melliflua ed eclissata, quasi un afflato recitato su basi sintetiche coldwave, “Still, Disappearing”, dove l’ansia noir prende il sopravvento e “Balm (After Violence)”, impostata sulle funeste note di un pianoforte e corrosa da effetti elettronici e distorsioni che incrementano ulteriormente il già elevato stato d’apprensione.
Il tentativo (per così dire) scanzonato è rappresentato dal singolo “The Talker”, sorprendente per l’inedito piglio brioso, che s’incastra con ottimi esiti all’interno dell’antitetico panorama generale.
Il rigore sul quale si dispiegano i nuovi brani porta ancor più che in passato a richiamare riferimenti quali Joy Division e loro affini, o per restare più vicini ai giorni nostri, a esperienze quali Editors degli esordi (“Something Good”) o Interpol (“Try Me Again”).
Perseverando nel distribuire il loro massiccio potere cupo ed espansivo, i Whispering Sons di "The Great Calm" rappresentano qualche plausibile rivisitazione sul proprio percorso. Possiamo definirla anche una crescita artistica, quella profusa da Kuppens e soci, sebbene essa abbia comunque prodotto una serie di canzoni che propagano ancora da tutti i pori provocazione e inusitato turbamento emotivo, dove potenza, energia e tetra bellezza restano (fortunatamente) ingredienti indelebili.
06/03/2024