Il processo di purificazione dall’etica synth-pop, che William Doyle ha intrapreso dopo aver smesso i panni di East India Youth, è un percorso a ostacoli non privo di trappole. Il musicista inglese è stato finora abile nell’evitare confronti imbarazzanti e ha preservato un’intensità armonica e un senso della misura encomiabili, illuminando la scena art-pop con l’estatico e policromo “Your Wilderness Revisited” e rinvigorendone il fascino con il seguente “Great Spans Of Muddy Time”.
Con “Springs Eternal”, Doyle non rinuncia a questa pregnante eredità, ma la rilegge con una nuova prospettiva più giocosa e screziata. L’album è il definitivo outing artistico di un artista spesso archiviato in fretta sotto neologismi a puro uso e consumo del mercato, soprattutto dopo la nomina al Mercury Prize nel 2014 che lo ha posto sotto i riflettori e all’attenzione di un pubblico più vasto.
Che il mentore Brian Eno faccia parte del progetto (presente nei due brani “Relentless Melt” e “Surrender Yourself”) non è elemento idoneo a discernere le peculiarità dell’album, “Springs Eternal” è un disco che prende spunto dall’arte del pop collage brevettato dagli Xtc e ora linguaggio semantico di Field Music e altri nobili epigoni, fino a scavare nelle passate intuizioni armoniche della musica beat e surf (Beach Boys in particolare), con risultati a volte spiazzanti.
Prodotto dall’autore con il contributo di Mike Lindsay (LUMP, Tunng) e contraddistinto dalla presenza di Alexander Painter, Brian Eno e Genevieve Dawson, il nuovo disco di William Doyle è l’ennesima raccolta di pregevoli bignami dell’arte della composizione e dell’arrangiamento, in delicato equilibrio tra logiche creative lo-fi/indie-pop e più ambiziose rifiniture art-pop.
In questo susseguirsi di slanci e pause, “Springs Eternal” mostra qualche segno di cedimento nell’insieme più che nei singoli episodi. Il brano che ha anticipato l’uscita dell’album, “Now In Motion”, è in tal senso illuminante: melodia e refrain ben si incastrano con il suono graffiante delle chitarre e il groove funky-blues-pop, il caos di synth e voci sul finale è altrettanto incisivo, l’ombra di Thomas Dolby aleggia tra le fila del brano, anche se resta una flebile sensazione di appuntamento mancato con la perfect pop song.
Il quasi miracolo postmoderno si rinnova istantaneamente nel succulento funky-pop di “Relentless Melt” (Xtc meets Hot Chip), brano che nel finale non lesina qualche volontario/involontario richiamo ad Alan Parsons.
William Doyle paga decisamente lo scotto di non avere una voce all’altezza delle nuove sembianze pop, le lievi innovazioni ritmiche di brani dal passo solenne come “Soft To The Touch” e le audaci geometrie della title track funzionano a sufficienza, diversamente l’ibridazione tra melodie alla Beach Boys e fuzz guitar di “Cannot Unsee” resta sospesa nel limbo.
Il musicista inglese è decisamente più a suo agio con le raffinate ambientazioni dream-folk e crepuscolari di “Garden Of The Morning”, una ballata che si snoda tra eleganti arpeggi e intrecci vocali suadenti, nelle più essenziali romanticherie folk di “Castawayed” o nelle ancor più fragili sembianze acustiche di “Because Of A Dream”.
Che l’ardito groove di synth dell’unico brano strumentale “A Long Life” risulti una delle pagine più avvincenti offre indicazioni per le future evoluzioni del cantautore inglese: “Springs Eternal” è un nuovo punto di partenza per future delizie, in parte già rintracciabile nella meravigliosa architettura sonora di “A Short Illness”.
William Doyle è uno degli autori più talentuosi della propria generazione, un artista in perenne ricerca di nuovi stimoli, uno scenografo dell’art-pop più malinconico che ha iniziato a sorridere.
04/03/2024