C'è del coraggio a uscire con un album il cui titolo invita esplicitamente a non riprodurlo. C'è tutto il coraggio che Ava Max, a parole sue la popstar peggio gestita degli ultimi anni, non ha avuto nel corso di una carriera ancora giovane, ma già irrimediabilmente compromessa. Quanto tale rapido declino sia responsabilità dell'etichetta e quanto una diretta emanazione delle scelte sonore/estetiche della popstar statunitense non è semplice da determinare, resta comunque il fatto che dopo un fulmineo innamoramento generale, il tracollo è parso inesorabile.
Giunta al terzo album, seguito di un "Diamonds & Dancefloors" che già cadeva sotto il peso del suo anonimato streamingcore, con "Don't Click Play" non fa niente per invertire la china, ma intrattiene la stessa improvvida relazione con un pop ballabile dai contorni sintetici, tanto adatto a qualsivoglia algoritmo quanto privo di spunti e personalità. La discesa prosegue inesorabile.
A volersi concentrare, di fatto emerge una peculiarità rispetto alle prove precedenti: laddove i pezzi di Ava Max sovrabbondavano di campionamenti di brani conosciuti urbi et orbi, quelli del nuovo album rinunciano a un simile espediente, investendo piuttosto su materiale originale. La scelta mette a tacere le voci che la popstar non fosse altro che una "sample queen", si rivelano però tutti i limiti di una proposta che, al netto della sua ballabilità, non si prende mai un rischio.
Vorrebbe mostrare tutta la sua "cazzimma" nella title track, prendere di mira gli hater e le loro affermazioni, ma sopra il beat technoide di base la canzone procede formulaica, uno stereotipo ambulante di residuati dance anni Dieci. E così l'individualismo un tanto al chilo di "Lovin' Myself" prende spunti synthwave ma li stempera in un abusato melodismo euro, che qui viene impiegato in più di un'occasione con risultati piuttosto pronosticabili (le derivazioni ABBA di “Know Somebody”). Stentati fraseggi funky-house (la Kylie Minogue in sedicesimo di "Take My Call") o malcelati omaggi all'era di "Flashdance" ("Wet, Hot American Dream") completano un quadro spento, un succedersi di convenzioni in cui inserirsi senza davvero far valere la propria voce.
In questo mare forza zero, giusto due episodi sanno comunicare qualcosa di diverso: l'attitudine pop-rock di "Lost Your Faith" e il tocco est-europeo di "World's Smallest Violin" offrono uno sguardo diverso, un segnale di opportunità che Ava Max potrebbe cogliere per diversificare un catalogo da troppo tempo cristallizzato. A ostinarsi sulla stessa scia dance, i risultati anche lato streaming non faranno altro che peggiorare.
07/10/2025