DJ Koze - Music Can Hear Us

C'è un momento, nella traiettoria di un artista, in cui si rende necessario voltare pagina e abbandonare le posture che lo hanno reso riconoscibile. È un passaggio rischioso, che spesso nasce da un'urgenza interna più che da una strategia: una tensione da tempo rimossa per pudore, verso qualcosa che non si era mai avuto il coraggio di mettere al centro. Stefan Kozalla, ovvero DJ Koze, sembra trovarsi esattamente lì, a cavallo tra la volontà di rompere con il proprio passato e il desiderio di affermare una nuova forma espressiva. "Music Can Hear Us" è distante anni luce dalle spirali ipnotiche e carnali della microhouse di matrice Kompakt che ne avevano battezzato gli esordi: dove una volta dominava l'essenzialità del suono post-umano, oggi troviamo una proliferazione di timbri, un massimalismo esotico e chillwave. Non il primo lavoro pop-oriented, ma sicuramente il più ruffiano: abbandonato il retaggio indietronica di "Knock Knock", la nuova veste è quella di un'emotività da resort piuttosto che il sentimento etereo e intimista di "Amygdala".

Se c'è una cosa che questo album possiede, è la varietà: si passa da fantasie afrohouse a impervi disturbi (pseudo)-electro, fino a un art-pop che ondeggia tra le liane, come nel caso di "Pure Love", cantata da un Damon Albarn non certo di primo pelo, che già da subito orienta la traiettoria del full-length: una sarabanda di collaborazioni. Rallentato il ritmo a quello di una ballad tropicale, i featuring si susseguono come non mai: c'è persino Soap&Skin, quanto di più distante dal debut-album "Kosi Comes Around", qui riformulata in una veste pop quasi caricaturale. Ogni brano è abitato da una voce esterna, come a voler sommergere il disco di presenze e far dimenticare al pubblico i trascorsi con Róisín Murphy, per cui Koze ha prodotto "Hit Parade", uscito poco prima che l'artista irlandese fosse travolta da polemiche per alcune sue affermazioni, su cui lui non ha mai preso pubblicamente posizione.

Un aspetto disorientante è la ricorrenza delle voci: a tratti liriche, a tratti didascaliche. Ma il vero problema è che, sotto la patina lucidata delle produzioni, si percepisce una certa stanchezza concettuale, una deriva manierista: la cura per il dettaglio sostituisce l'intuizione, la varietà di superficie prende il posto di un'urgenza reale. Sono canzoni da spiaggia cantate da ologrammi distrutti, come in "What About Us", forse l'unica valida assieme a "Brushcutter", dove a un breakkato di lontana matrice drum and bass si accompagna una linea vocale da scuola Yung Lean ed emo-trap.
Koze, che un tempo sembrava abitare il confine sfumato tra analogico e digitale con uno spirito anarchico, oggi pare più vicino a una gita fuori porta con i compagni di bevute. A mancare, più che la coerenza, è quella scintilla che rendeva la sua tessitura un corpo vivo, capace di rimettere in discussione la grammatica stessa della club-culture.

Non c'è quasi più traccia di techno, pochissima house: il che, di per sé, non è mica un difetto. Ma si ha l'impressione di ascoltare un collage minore degli Avalanches o una B-side distratta dei Gorillaz, seppur secondo texture e strutture non certo identiche. Senza dubbio, si è persa la tensione erotica e surreale di "It's Only", remix che aveva trasfigurato un brano di Matthew Herbert in una dimensione mistica. Qui, tutto è più illustrativo, più ornamentale. Forse si tratta di una nuova rotta, non ancora del tutto messa a fuoco. Oppure del desiderio testardo di esprimere qualcosa che, finora, era rimasto giustamente taciuto. In entrambi i casi, resta il dubbio che stavolta sarebbe stato meglio lasciare quel campo inesplorato.

16/04/2025