The Laughing Chimes

Un forse inevitabile cambio di registro aspettava al varco una band come The Laughing Chimes, autrice nel recente passato di un bizzarro ma non troppo trapianto del Dunedin sound nella rust belt americana (Ohio). Una musica che in fondo si attaglia a quei panorami (sub)urbani e a tratti desolati né più né meno di interpreti più illustri, come Kozelek e Bon Iver, e che in questo disco si fa animata da un trasporto che di rado si osserva in queste uscite (si possono ricordare senza troppi rischi i mai dimenticati Northern Portrait e i non troppo lontani, geograficamente, The Holiday Crowd).

Pur nella brevità dei suoi otto brani, "Whispers In The Speech Machine" si aggrappa subito all'ascoltatore, anche grazie alla delivery leggermente roca e appassionata di Evan Seurkamp ("Cats Go Watching", la Smiths-iana e bellissima "Atrophy"), che fonda la band insieme al fratello Quinn ormai cinque anni fa. 
La fedeltà della band a un sound "altro" non è né una gabbia né una posa espressiva (sarebbe troppo facile in questo caso "appoggiarsi" a band come Cure o Echo & The Bunnymen), ma una naturale prosecuzione dello stile più arrembante e giovanile del comunque ottimo e consigliatissimo esordio "In This Town". Anche nel contesto di un jangle-pop più "classico" come quello di questo disco, la band non perde un'oncia della sua freschezza espressiva, convogliandola verso una più adulta presa emotiva ("High Beams").

Anche il sound e la produzione si adattano non solo alla leggera virata espressiva ma anche all'accasamento presso la Slumberland, per cui la quota minima di riverbero e cavernosità è forse prevista per contratto ("Fluorescent Minds"). Come già detto, però, la transizione è senza intoppi e soprattutto non intacca in alcun modo la purezza della scrittura della band ma anche del suo spirito giovanile, come testimonia la chiusura "Mudhouse Mansion". Se non abbiamo già un contendente al miglior album jangle-pop dell'anno, ci siamo vicini.

17/02/2025