Due sabbie del faro
Dentro una clessidra
Che ha voglia di urlare
“Dieci canzoni di pop fragile, dove liriche e immagini nuotano dal cosmico al quotidiano, immerse in sintetizzatori eterei, magnetici raga gommosi e ritmiche umide”. Se le parole hanno ancora una certa importanza, per dirla con Nanni quando era giovane e segnava gol bellissimi, allora queste di Trapcoustic servono a tanto. Per non dire tantissimo, altrimenti Demented Burrocacao, cioè Stefano Di Trapani, polistrumentista e cantautore di soluzioni gestionali, potrebbe montarsi la testa.
La ricerca della felicità è così un battito miyazakiano lontanissimo che pulsa di vita, tra cuori scambiati per il rame e giorni indimenticabili.
Mettiamo per un attimo a cena Moroder e Greene con Ravi Shankar che si aggiunge al tavolo per sfotterli mentre parlano di Moog, alieni e altro. Magari a Ostia. Oppure a Sabaudia. Al tramonto, ci mancherebbe altro. Quando la sabbia ha già graffiato i talloni e la doccetta per i piedi è trafficata.
Sbilenco, magnetico, inafferrabile, stonato, Trapcoustic vola spesso in India prima di riapprodare su qualche lido isolato dal mondo (“I treni”). Non ci sono infatti troppi riferimenti o ulteriori paralleli, ed è un gran bene. Il cantautorato italiano impegnato e ultra-dimenticato dei Settanta? Ovviamente. Tuttavia, Di Trapani fugge e rifugge da ogni cosa. E rimane per tutto il tempo lì, sopra il suo albero animale di cose aliene che fanno anche bene al cuore. Un esempio? Quel miracolo di “Funzioni” con il suo “ritmo saturo e cardiaco”. O nei letti sfatti di due ore di “Jenny”. E ancora nelle albe all’orizzonte di “Gioielli”.
Insomma, Trapcoustic compone canzoni per salutare o abbracciare il sole. Canzoni ubriache di luci abbandonate. E’ tutto qui lo scrigno di “Ambra”. Un disco fuori e per il quale abbandonarsi.
15/05/2025