A scherzare con il diavolo...
Dalla remota Anchorage, Ryan Sollee si è portato dietro ben poco. L'essenziale per mantenersi prima di trovare un impiego, la fame di chi abbia ancora tutto da dimostrare e poi, beh, naturalmente quel pugno di amici di vecchia data, compagni in un gruppo dal nome non proprio entusiasmante, Born Losers, che non per nulla viene presto liquidato. La Portland del 2004 è una città musicalmente vivacissima, così il cantante e chitarrista pel di carota non fatica a conoscere persone che condividano la sua stessa passione, diverse delle quali provenienti come lui dall'Alaska. Sono loro a costituire il nucleo embrionale di una nuova compagine, la cui intestazione provvisoria è The Funeral Band. Nella notte di Halloween del 2005, la formazione offre il suo primo concerto in chiave rock sudista a nome The Builders And The Butchers, già permeato di inflessioni goticheggianti e suonato dapprima senza amplificazione, resasi poi necessaria in virtù dell'inatteso pienone. Una delle loro peculiarità, da subito evidente, è la presenza in organico di una doppia batteria o, meglio, di una batteria destrutturata, con l'armonica convivenza di Paul Seely alla grancassa e di Ray Rude ai rullanti. Originale anche il processo creativo, innescato dalla scrittura dei testi (ad opera del solo frontman) poi presentati ai compagni per curarne tutti assieme l'accompagnamento musicale. La locale Bladen County li nota e li mette presto sotto contratto. Il primo anno trascorre tra esibizioni di strada, spesso davanti ai club dove si esibiscono artisti già affermati. Tra i primi ad accorgersi di loro ci sono i Man Man, che riconoscono una certa affinità e non esitano a invitarli ad aprire alcuni dei loro concerti nel corso dell'anno seguente, e i Loch Lomond, una delle realtà più significative della montante onda chamber-folk cittadina: i due gruppi pubblicheranno uno split di otto brani nell'estate del 2007.

Ben presto lo stile pirico e ribollente della band ha modo di svelare le proprie carte con l'impetuoso country espressionista di "Red Hands" e la sua monumentale impalcatura acustica: la voce pure spiritata di Sollee è sovrastata senza appelli dall'impianto percussivo e dall'indiavolato strumming delle chitarre. Si tratta di una collezione di canzoni vibranti, infiammate a intermittenza dal mandolino di Harvey Tumbleson, dalle spazzolate senza fronzoli dei due batteristi e dall'interpretazione sopra le righe del cantante, efficace nei suoi slanci teatrali ma abbastanza intelligente da evitare di uscire dal seminato di un rock delle radici invero coerente, meravigliosamente aspro e ferroso.
Le tonalità da crepuscolo chicano evocate sin dal titolo in "Spanish Death Song" si accendono, quindi, in un formidabile numero a effetto, la miglior canzone che i Decemberists ancora non hanno scritto: arrembante, corale, infettiva e decadente, anche senza scadere in un fumetto pacchiano à-la Robert Rodriguez, e sufficientemente esauriente nello snocciolare i tratti chiave di un'estetica al punto da suonare insieme programmatica e paradigmatica. Resta forse un tantino rustica e approssimativa la produzione, parziale freno all'esplosività del gruppo, ma le linee portanti della sua cifra espressiva si colgono già in maniera limpida. Il frontman sale in cattedra con personalità nella successiva "Black Dresses", mostrando il carattere velenoso di una compagine ancora incontaminata come poche, affilata, incalzante, abile a vivificare un formulario roots anni Novanta - dai Sixteen Horsepower ai Grant Lee Buffalo più polverosi - in maniera, tutto sommato, nient'affatto scontata. Non manca qualche passaggio più sbracato, alticcio e incespicante, personale reinterpretazione del verbo dylaniano come in una "The Gallows" che sa di festa campestre.

Per fare il colpo, tuttavia, manca ancora un progetto "forte", di sicura presa in termini di tematiche e immaginario. Ma per questo, come sul versante tecnico, i The Builders & The Butchers non impiegheranno molto per aggiustare il tiro con profitto. Nel biennio che segue si fanno apprezzare nella zona grazie a una serie di performance a dir poco trascinanti (a supporto di Dax Riggs, Helio Sequence e Port O'Brien) ma sembrano destinati a restare nell'ombra, come tanti altri. Il primo tassello del loro personale mosaico della fortuna ha il faccione di Chris Funk, chitarrista dei Decemberists che a tempo perso si improvvisa talent scout e produttore. L'offerta di aiuto è troppo ghiotta per rinunciarvi e porta con sé la disponibilità di ambienti, mezzi e collaboratori di prima scelta (compreso Tucker Martine), una manna che nessuno dei Builders avrebbe saputo immaginare anche solo un paio di mesi prima.

L'esplorazione parte dall'oscurità di "Golden And Green", con quella che ha tutto il sapore della premessa. L'invito a chiudere gli occhi favorisce l'immedesimazione con il protagonista dell'intera vicenda, anche se in un'intervista Sollee ha dichiarato di aver tratto ispirazione per questo brano da uno dei più straordinari idiot savant della storia dell'arte, Henry Darger (che ha già influenzato una pletora di artisti, da Natalie Merchant a Sufjan Stevens, dalle Vivian Girls agli Animal Collective, dai Majical Cloudz ai Comet Gain passando per i Wussy). Impetuosa ed eclatante, la canzone d'apertura definisce le linee emotive e sonore dell'album, con la voce tremula di Ryan che irrompe e sale in cattedra affiancata dai pesanti calibri dei due batteristi, dai violini e da chitarre d'ogni sorta. Il pronto rinforzo offerto dalla ruspante "Devil Town", immediata ma attenta al dettaglio con la sua rustica fisionomia bandistica (resa fruttuosa da un songwriting all'altezza), consolida la sensazione di trovarsi al cospetto di una macchina ideata per impressionare e in cui ogni elemento svolge alla perfezione il proprio compito. Dietro la console Funk e Martine mostrano di saper infondere quel senso di magico equilibrio che a questi ragazzi evidentemente mancava, rifinendo e arrotondando i suoni rispetto alle asprezze folk di quel primo lavoro, ma senza svilirne l'incisività, anzi, assecondando le potenzialità di una band di pura sostanza, già speciale di suo. Un sodalizio quanto mai indovinato, dunque, alla riscoperta della più incendiaria musica roots del secolo passato.
Introdotta dal banjo e dall'armonica, "Short Way Home" è un'esplosione di colori e umori ferrosi - con atmosfere che tendono al sanguigno e al blueseggiante - in cui troneggia la voce nasale e istrionica di Sollee. Un ridotto immaginario a base di ali dorate, angeli, avelli tenebrosi, sangue, fiumi e alberi in fiamme è snocciolato con la giusta convinzione in testi carichi di suggestioni millenaristiche. Il diavolo si ritaglia un ruolo da protagonista (non poteva essere altrimenti) come metà oscura dell'animo umano, mentre il fuoco divampa in ogni dove con l'esplodere delle emozioni. Il diversivo spagnoleggiante intavolato dall'iperbolica "Barcelona" coincide con l'episodio in cui i debiti verso il Decemberists' style affiorano in tutta la loro evidenza (ricordate per caso “O Valencia"?), forse con qualche Meloysmo di troppo nel cantato. La vena genuinamente enfatica e il calore autentico della band preservano comunque il pezzo dall'artificio dell'imitazione dozzinale e della teatralità picaresca trasformandolo in un irresistibile omaggio, quasi una personale reinterpretazione del classicismo di un gruppo ormai arrivato.

Incastonata tra le due, "The Wind Has Come" opta nuovamente per una strategia di mimetismo dicemberista, esponendosi senza timore al rischio della stilizzazione e della maniera. Il passo sofferto e un impianto sonoro votato alla massima sobrietà la rendono un passaggio quasi alieno, straniante, un'isola d'estenuata malinconia in mezzo allo scorrere irruento delle altre canzoni. Ma l'energia che qui è magistralmente trattenuta basta a confermare per intero le credenziali del gruppo, dimostrandone l'autorevole disinvoltura anche alle prese con registri non proprio canonici per la band di stanza a Portland. "The World Is A Top" funziona egregiamente come conclusione della parabola, l'uscita dal pozzo a riveder le stelle. La vetta è raggiunta con un'esternazione elettroacustica impeccabile in quanto a rilascio emotivo, con l'impiego di calzanti coloriture gospel in bassa fedeltà ad ampliare lo spettro espressivo di Salvation Is A Deep Dark Well (rispolverando una delle folgoranti formule del bellissimo esordio). Ancora una volta nell'ordine delle idee, dal vuoto del silenzio, la forza dei Builders risulta enormemente amplificata. Una scommessa vinta a tutti i livelli, quindi, combriccola e album promossi a pieni voti.
Una rotta facilmente prevedibile
La band, frattanto, non si siede sui pur modesti allori e appare in piena evoluzione. Registra senza colpo ferire un paio di avvicendamenti, con l'ingresso del batterista Brandon Hafer e del bassista Willy Kunkle al posto dei dimissionari Paul Seely e Alex Ellis, quindi si imbarca in un nuovo tour promozionale accanto ai vari Amanda Palmer, Heartless Bastards, Brand New e Murder By Death. Per catturare senza mediazioni l'energia dei loro show, i cinque decidono di affidarsi ad Adam Selzer (Decemberists, M. Ward, She & Him) e Dylan Magierek (Mark Kozelek), registrando live in studio per una settimana i nuovi brani e limitando al minimo sovraincisioni e post-produzione. Unica ospite l'amica violinista Amanda Lawrence. Il titolo del nuovo lavoro, Dead Reckoning, che fa riferimento all'antica tecnica della navigazione stimata, vale anche come allusione al percorso stilistico in fondo preventivabile del gruppo stesso, in un'opera programmaticamente di passaggio.

Con "It Came From The Sea" tornano i Decemberists - più "Castaways And Cutouts" che gli ovvi "Picaresque" o "Her Majesty" - qui imitati con grazia insolita da un Sollee sempre felicemente incline e uno sfacciato lirismo, a una teatralizzazione che è romantica fino al parossismo. La ninnananna di "Lullaby" prova a far propria la lezione non solo del solito Meloy, ma anche dei vari Arcade Fire, Okkervil River e affini. L'impressione di "già sentito" resta evidente, eppure tutto fila a meraviglia e il gruppo non tradisce il minimo calo d'intensità, pure alle prese con episodi meno tirati all'esasperazione e arrangiati con cura certosina. Le trame si sono fatte più esili, meno schiacciate dall'incombente apparato ritmico, pure preminente nell'economia sonora della compagine di Portland. Vale per "Moon Is On The March" e, a maggior ragione, per "All Away", passaggio depurato sin quasi a una nudità malinconica di innegabile sostanza. E vale per "Out Of The Mountain", che riserva i suoi spazi alla contemplazione, alle nuance superbe di una ballata country-blues, al passo lento e colmo di stupore di un Chris Robinson. Possono suonare disadorni i The Builders & The Butchers ma fragili mai, mai davvero disarmati. L'infiammata non tarda peraltro ad arrivare ("Cradle On Fire"), accendendo con la necessaria virulenza i folklorismi rotondi e un tanto al chilo degli statunitensi.

Il 2011 regala ai Builders un nuovo avvicendamento per una delle due posizioni di batterista, con Justin Baier al posto di Brandon Hafer, ma è anche l'anno di un nuovo Ep condiviso, in questo caso con gli amici dell'Indiana Murder By Death, un piccolo cult negli States. Le due band si scambiano la cortesia di una reciproca cover, con altri due brani dai rispettivi repertori rivisitati dal progetto solista di Ray Rude, Operation Mission. Il risultato è però inferiore alle aspettative.
Trascorre un altro biennio. Chi li aveva conosciuti quando usci il loro sophomore, il mezzo capolavoro Salvation Is A Deep Dark Well, incappò con ogni probabilità in un facile colpo di fulmine, conquistato dalle stringate note biografiche che raccontavano della fuga repentina verso la mecca di Portland e persuaso dalla bontà di quella formula, a metà strada tra rock delle radici, gospel esacerbato da trita retorica battista e alt-country incendiario. Non avrebbe avuto forse la minima esitazione a puntare sul loro nome il fatidico nichelino. Col senno di poi, questo si sarebbe rivelato un azzardo privo di prospettive. A quattro anni (e due dischi) da quella vetta, riecco con Western Medicine gli stessi The Builders & The Butchers aspri e teatrali di allora, ma senza più la bruciante forza propulsiva che avevano saputo infondere in quel particolare momento magico.
"Dirt In The Ground", per dire, conserva intatta l'ebbrezza del loro arrembante American Gothic in salsa folk e riesce ancora contagiosa, malgrado una penetrante impressione di déjà vu. Dall'indiavolato blues da fiera di campagna che in "Redemption Sound" si trova ad attingere per l'ennesima volta da un patrimonio di allegorie (religiose per lo più), tanto elementari quanto efficaci, al senso di incombente calamità tratteggiato dalle ritmiche poderose (la doppia batteria non ha mai smesso di essere uno dei marchi di fabbrica della band) o dalle accese coloriture acustiche - tutto come da repertorio - in "Desert On Fire", i cinque statunitensi rispolverano senza sostanziali novità la medesima prospettiva manichea e la verve da predicatori già sfoggiate nelle precedenti occasioni (non fanno eccezione l'immediato predecessore, Dead Reckoning, e l'esordio eponimo del 2007) con relativo corollario di diavoli, dannazione e fuoco a tutto spiano, affidato a testi al solito fin troppo immaginifici.

Nonostante le sanguigne atmosfere tra country picaresco e blues del Delta (curioso punto d'incontro tra i padri putativi Decemberists, i conterranei Portugal The Man e i Felice Brothers), la loro rimane musica di genere, assai limitata in quanto a varietà di soluzioni praticabili, data anche la ritrosia (ammirevole, tutto sommato) a svilire la propria cifra con contaminazioni fuori luogo o artifici sintetici. Il grosso limite di uno stile così peculiare risiede nell'impossibilità di aprirlo a significative evoluzioni senza comprometterlo irrimediabilmente: così i Builders sembrano schiavi della loro stessa eccentricità, campioni in un regno minuscolo destinato a non crescere mai.
Il western morriconiano di cui parla la nota stampa è ovviamente assimilato e rielaborato in base alla propria indole e all'enfasi galoppante del disco. Il fervore mantenuto come sempre ad alti livelli compensa le fisiologiche flessioni a livello di scrittura mentre l'istintualità ha gioco facile a prendere il sopravvento. L'umore tuttavia non vira di mezzo grado, così ci si ritrova ad apprezzare un lavoro impeccabile ma di difficile digeribilità, che richiede all'ascoltatore la più idonea predisposizione d'animo e una buona dose di pazienza. Ad alzare il coefficiente di difficoltà è la considerevole lunghezza dell'album: qualche taglio significativo e una maggiore agilità nei singoli episodi avrebbero giovato, ma è certo che non si possa rimproverare la compagine statunitense per scarsa generosità. Basta anzi la coralità ossessiva della cantata "Poison Water" a mettere in risalto tutta la determinazione dei cinque di stanza a Portland, la loro proverbiale tenuta a livello emotivo e la potenza di un sound volutamente datato, analogico, artigianale ma anche di tonante visceralità.
In una veste appena meno bulimica o straripante, il gruppo svela tutte le sue esplosive potenzialità, pur nel chiuso del proprio ambito di riferimento. Basta il tono sofferto ma trattenuto di "No Roses", la misura nell'impiego sapiente di pianoforte e chitarre oltre a un refrain davvero memorabile, per ritrovare la trascinante umanità della compagine di Colin Meloy, quando ancora non suonava avvelenata dalla maniera. Oppure il banjo alla guida dell'affilata "Ceceil", ballad fragile e spogliata finalmente di tanti orpelli, prima che "Take Me Home" apra il finale a una contemplazione più serena dopo uno sproposito di incubi, nuvole nere e piaghe bibliche. La marcata inflessione sudista riporta in auge la concretezza positiva e virtuosa della terra, della tradizione, mentre il mandolino di Harvey Tumbleson asciuga le asprezze e ingentilisce, seguito a ruota dall'hammond luminoso e dalla voce di un performer di razza come Sollee.
Un disco difficile, insomma, ma ancora di qualità, per una formazione a suo modo incredibile, destinata a non sfondare mai.